Il lavoro per i detenuti nelle carceri italiane non è solo un'opportunità di reintegrazione sociale e di emancipazione economica, ma anche un pilastro della stessa idea di giustizia rieducativa sancita dalla Costituzione. Eppure, la recente decisione di ridurre il personale detenuto lavoratore in alcune regioni, a causa di fondi insufficienti, rappresenta un tradimento di questi principi fondamentali. Non solo questa scelta rischia di compromettere il delicato equilibrio all’interno delle strutture penitenziarie, ma sottolinea anche una cronica mancanza di visione politica e di investimento nel sistema carcerario.
Un problema di bilancio o di priorità politica?
La nota del Provveditorato regionale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, che impone ai direttori carcerari di tagliare il numero di detenuti lavoratori per rispettare un budget dimezzato rispetto al fabbisogno, è un’amara conferma: il lavoro in carcere, tanto celebrato a parole come strumento di riscatto e reintegrazione, viene considerato un costo sacrificabile. I due milioni di euro richiesti dalle direzioni carcerarie delle tre regioni per garantire la sostenibilità del lavoro intramurale sono stati ridotti a meno della metà, una cifra irrisoria se confrontata con le risorse che lo Stato spreca in altri ambiti.
Nel frattempo, il Ministero della Giustizia (Nordio) tenta di difendersi parlando di un “piano straordinario” per il 2024, con un budget complessivo di 128 milioni di euro per il lavoro e la formazione dei detenuti. Ma queste dichiarazioni suonano come vuoti proclami, incapaci di rispondere alla realtà dei fatti: nelle regioni colpite dal taglio, i fondi sono insufficienti, e i detenuti che lavorano saranno costretti a fermarsi o a subire un aumento del lavoro non retribuito, in un clima di crescente tensione.
Il lavoro in carcere: molto più di un diritto
Il lavoro intramurale non è solo una forma di sostentamento economico per i detenuti, ma una chiave fondamentale per ridurre il disagio psicologico, abbattere il tasso di recidiva e migliorare il funzionamento stesso delle carceri. Bibliotecari, scrivani, addetti alla distribuzione del vitto e alla manutenzione delle strutture: senza queste figure, le già precarie condizioni di vita negli istituti di pena rischiano di peggiorare ulteriormente. Eppure, sono proprio questi ruoli a essere colpiti dai tagli.
Non si tratta solo di numeri. Per molti detenuti, avere un lavoro significa riconquistare dignità e speranza. Lo testimoniano le parole di una donna che ha lottato per ottenere un impiego all’interno del carcere: “Ora ho la possibilità di sentirmi utile verso i miei figli”. Perdere questa opportunità equivale a tornare in un limbo di passività e frustrazione, condizioni che alimentano il ciclo della recidiva e aggravano il sovraffollamento carcerario.
Il corto circuito tra norme e realtà
La scelta di ridurre i posti di lavoro per i detenuti è anche un fallimento del sistema giuridico e amministrativo. La Costituzione italiana, all’articolo 27, riconosce il valore rieducativo della pena, ma questa visione viene sistematicamente ignorata. Negli ultimi anni, i fondi destinati al lavoro e alla formazione intramurale non sono mai stati adeguati alle reali necessità, lasciando i direttori carcerari a dover operare con risorse sempre più esigue.
Come ha sottolineato Michele Miravalle, responsabile dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, questa situazione obbligherà i direttori a scelte inaccettabili: tagliare posti di lavoro, aumentare le ore di lavoro non retribuito o chiudere servizi essenziali. Un circolo vizioso che aggrava la disumanizzazione del sistema carcerario.
La giustizia come investimento, non come costo
Il lavoro in carcere non è un lusso, ma un investimento sociale ed economico. Ogni euro speso per garantire opportunità di lavoro ai detenuti contribuisce a ridurre i costi della recidiva, che gravano pesantemente sul bilancio dello Stato e sul tessuto sociale. Ignorare questa realtà significa non solo violare i diritti dei detenuti, ma anche perpetuare un modello di giustizia che non risponde né alle esigenze di sicurezza né a quelle di equità.
I tagli imposti dal Provveditorato e la gestione inadeguata delle risorse da parte del Ministero dimostrano una mancanza di volontà politica di affrontare il problema alla radice. Non servono piani straordinari annunciati in pompa magna, ma un impegno costante e serio per garantire finanziamenti adeguati e politiche carcerarie all’altezza delle sfide attuali.