A un convegno della società scientifica nazionale delle cefalee che ho contribuito a fondare con alcuni rinomati colleghi quasi 25 anni fa, mi era stato chiesto dall'attuale presidente, la genovese Cinzia Finocchi, primaria neurologa a Savona, di parlare di "Come pensa un medico".
Ovviamente sono tornato con la mente (e col cuore) a tutto ciò che mi ha formato in tanti anni di studio e tirocinio - "sono questi i fondamenti del buon medico", mi sono detto, "e non avranno mai una vera fine" - e a tutti coloro che hanno rappresentato per me una guida e un esempio. A cominciare da mio padre e dai miei maestri, professionali ed etici. Per la verità non molti.
Se, infatti, per la prima forma di tutoraggio qualche possibilità l'ho avuta, sull'altro versante, quello della filosofia morale, da cui questo meraviglioso lavoro non può prescindere, qualche problema in più a reperire "un buon prodotto" c'è stato. "Non si può essere un buon medico" - sosteneva Galeno, il primo vero grande clinico della storia dell'umanità, in uno scritto significativamente intitolato "Quod optimus medicus sit quoque philosophus" ("Il miglior medico è anche filosofo") - "se non si conoscono logica, fisica ed etica", cioè l'insieme dell'autentica filosofia. Insomma, mi ero preparato da bravo scolaretto la mia dotta dissertazione sulle origini del pensiero medico da Ippocrate (o quello che, sotto il nome di "corpus ippocraticum", viene attribuito a lui e ai suoi discepoli), passando per lo scibile maturato nei secoli successivi, fino ad arrivare ai giorni nostri, quando mi ha assalito un dubbio: "ma i nuovi dottori" - quelli che si sono appena laureati o al più specializzati, quelli della Generazione Z (nati tra il 1995 e il 2009) per intenderci - "ragionano ancora come me e come quei colleghi che Howe e Strauss un quarto di secolo fa avevano messo nel gruppo dei Baby Boomers?" (i nati tra il 1945 e il 1959, ndr.) La domanda è tanto più legittima avendo io un figlio appena laureato in medicina che, prima di volare per altri lidi lavorativi, ha fatto con me un breve percorso formativo al letto del malato ("bedside learning" lo avrebbe definito William Osler, il grande clinico canadese trapiantatosi e diventato imperituramente famoso a Londra).
Ferma restando la mia incrollabile convinzione che la passione per un lavoro, se autentica, non muta con l'inesorabile scorrere delle date di nascita, non si può non rilevare che qualcosa è cambiato per sempre nel tessuto sociale, culturale, intellettivo ed emotivo delle nuove generazioni (per la verità qualcosa di non minore era accaduto anche a chi era giunto prima di loro).
E l'intelligenza artificiale (l'AI, il suo acronimo anglosassone) con questo c'entra, almeno in questo caso, poco o nulla. Da una serie di studi, infatti, è emerso che i Baby Boomers - io e la maggior parte dei miei amici congressisti, prossimi alla pensione o già belli che in una quiescenza più o meno attiva - sono "politicamente e civilmente impegnati", amano "guardare la televisione", continuano a prediligere "la comunicazione face-to-face", sono su Facebook (io no!), ma non tutti ne padroneggiano "davvero il linguaggio" e pertanto il loro comportamento online è "per lo più silente o voyeuristico", sono "molto concreti" e perciò "la fluidità dei nuovi media talvolta li destabilizza", leggono ancora i libri e non sono interessati a interfacce particolarmente elaborate a livello grafico, Gli appartenenti alla Generazione Z (i "digital innates" come vengono anche chiamati) sono, invece, quelli "iperconnessi e multimediali di nascita, prima generazione mobile-first, totalmente immersi in una dimensione visuale", presentano una "soglia di attenzione media di 8 secondi" e, "bombardati costantemente da ogni tipo di messaggio commerciale", hanno sviluppato una "innata capacità di percezione e analisi preventiva dell’informazione – ovviamente se è solo testuale non viene neanche considerata" - e "vogliono essere sempre loro a dettare le regole del gioco".
Basterebbe questo, per chiederci cosa ne è (già oggi) delle "observatio et ratio" tanto care a Ippocrate e, soprattutto, cosa ne sarà domani, tanto più che le nuove generazioni (l'attuale alfa e la prossima beta non ne parliamo) privileggeranno sempre più le asettiche comunicazioni video con i pazienti e della meravigliosa "anatomia dell'errore" - con tutti i suoi costrutti deduttivi, nati in prossimità del sofferente e non a distanza - non sapranno più che farsene. Speriamo che un po' di pathos resti a loro attaccato e la compassione (la sua più grande e magica manifestazione di interesse umano) diventi almeno una nuova e consolidata "competenza medica", da acquisire con tanto di corsi e lezioni (a distanza, ovviamente).