Napoli

Ogni tanto qualcuno riscopre la voglia matta di mettere in fila indiana i film più belli della storia del cinema e son dolori per tutti i non affetti da opinionismo a oltranza, soprattutto per me, perdutamente innamorato della settima arte - come la definì Ricciotto Canudo, che prima di ogni altro aveva compreso la sua capacità unica e irripetibile di coniugare "l'estensione dello spazio e la dimensione del tempo" - e giammai rassegnato a che la bellezza, l'emozione, la fantasia e il sogno che una pellicola può donare siano in qualche modo posti dentro un ordine valoriale (più tecnico che spirituale) di buoni e cattivi, e - tra i primi - dei più buoni tra i buoni. Se ora scorrete le innumerevoli classifiche - proposte da riviste più o meno specializzate, quotidiani o privati cittadini  - scoprirete che le opere là riportate con tanto di posizione in graduatoria possono essere anche molto diverse tra loro. Una sola cosa hanno in comune, però: sono per una percentuale, potremmo dire bulgara, di manifattura statunitense. La ragione è del resto facilmente comprensibile.

Dal momento in cui i fratelli Louis e Auguste Lumiére - ormai quasi 140 anni fa - per la prima volta mostrarono al pubblico del Salon Indien du Grand Café del Boulevard de Capucines a Parigi un apparecchio da loro brevettato, chiamato "cinématographe" (dal greco, letteralmente, "scrittura in movimemto"), l'invenzione si impadronì del mondo e ben presto lo asservì ai suoi voleri, crudi o eterei che fossero, e alla potenza delle sue immagini prima e delle sue parole poi.

Dopo soli 4 anni, un altro inventore e imprenditore, questa volta statunitense, Thomas Edison, gettò le basi per rendere quello strumento artistico di valenza mondiale. Nasceva il cinema, il luogo estraniato e magico dove tutto è possibile e irripetibile nella sua multiformità, la locomotiva per l'orizzonte, il deltaplano per l'immensità. Nessuna forma d'arte è più diffondente e inclusiva, nessuna è più un grado di rapire, unire e disperdere le anime come il cinema.

Perciò l'America - il paese di Bengodi - sa farlo come nessuno: per le sue innate potenzialità finanziarie e tecniche e per l'ineguagliabile necessità di fuga dal suo sconfinato e malinconico quotidiano. Del pedissequo elenco dei migliori, che pure racconta di un bisogno mai domo di astrarsi e sognare, in un mondo sempre più schiavo della tecnologia e del profitto, nessuno sembra però più darsi pensiero. Raccontare sentimenti, nel lento come nel frenetico susseguirsi di immagini, parole e musica -  ragion d'essere stessa di un'opera cinematografica - sembra essere diventato meno inderogabile che rappresentare, o più correttamente simulare, attraverso i social, una ininterotta terreneità popolare e di maniera.

Un film, guardato al cinema o in una casa, è diventato così più che mai un momento di svago o, se preferite, una fuga dalle "crude verità" proposteci da un mondo affacciato H24 alla finestra a spiare, imitare, assolvere o condannare, tanto il prossimo quanto il remoto. Accade così che ci si imbatta - più sonnecchiante che arzillo - in una di quelle pellicole statunitensi senza particolari pretese, dal titolo "Il buongiorno del mattino". Non uno di quei film memorabili e altezzosi, privo di un budget supersonico o di una grande e annichilente promozione. Una commedia dai buoni (ma anche alcuni cattivi) sentimenti, uscita negli Stati Uniti a fine 2010, diretta dal compianto regista, sudafricano di nascita, ma inglese di adozione, Roger Michell (quello di "Notting Hill", per intenderci). Il film poteva poi contare anche sulla sceneggiatura di Aline Brosh McKenna - quella de "Il diavolo veste Prada" (2006) e di "27 volte in bianco" (2008) - e sulla produzione di J. J. Abrams, molto noto negli ambienti televisivi statunitensi per le numerose serie di successo da lui finanziate. Insomma, un prodotto ben preparato in premessa, ma anche poi ben concretizzato grazie a un cast nient'affatto male, con una strepitosa Rachel McAdams, seguita a ruota da tre mostri sacri del cinema d'oltremanica, Harrison Ford, Diane Keaton e Jeff Goldblum.

Non è tanto il risultato finale che mi ha alla fine risvegliato dal sonnellino domenicale, quanto il ritmo incalzante e godibile della commedia, apparentemente solo leggera e spensierata, ma che ha saputo assumere con grande umiltà anche il tratto dell'analisi sociologica e della lezione morale, ma sempre con passo lieve e bonario. Come solo il cinema americano - classifiche o meno alla mano - sa fare.