C'è qualcosa di stonato e pericoloso nelle scelte post-laurea dei nostri medici. E temo che non tutto sia "merito" loro. Anche l'ultimo concorso di qualche mese fa per l'accesso ai contratti di specializzazione, banditi sul territorio nazionale e nelle aree regionali, ha fornito, infatti, qualora ve ne fosse ancora bisogno, risultati a dir poco imbarazzanti.
Circa 4000 borse non sono state assegnate - ma già si parla di numeri ben maggiori - con quasi la metà che si sono concentrate su 4 specialità vitali per la sopravvivenza stessa del sistema sanitario italiano, che lo si guardi nella sua interezza o nelle sue sempre più divergenti realtà territoriali. Le branche specialistiche in questione sono medicina interna, chirurgia generale, anestesia e medicina dell'emergenza/urgenza.
Si va dal 20% della non copertura occupazionale della prima al 70% dell'ultima, passando per il 40% di chirurgia generale e il 50% di anestesia. Quando io ero ancora un bambino questi settori lavorativi erano il fiore all'occhiello di tutta l'attività professionale di mio padre e dei suoi colleghi. Un chirurgo generale o un internista erano fari, guide valorose e riconosciute per chiunque volesse fare il lavoro di Antonio Cardarelli e Pietro Valdoni, ma anche (e soprattutto) per chi riempiva con laboriosità e dignità caselle inferiori ma non meno cruciali per il mantenimento.del sistema assistenziale.
Gli anestesisti pure godevano di grande rispetto e fama, muovendo il loro agire quasi sciamanico in stretta relazione con quello dei chirurghi, di cui erano in qualche modo i numi tutelari. Le aree di Pronto Soccorso, pur non beneficiando di pari nobiltà, erano una fucina formativa imprescindibile per chi voleva cimentarsi con un'attività clinica od operatoria di pregio. Cosa sarà mai accaduto in poco più di mezzo secolo che ha consegnato al sistema sanitario nazionale un mondo capovolto, con la chirurgia estetica e la dermatologia a fare da padrone di una sanità sempre più parcellizzata e opportunistica, grazie alle mortificanti (per tutti, medici e pazienti) e spesso false promesse di minor impegno e lauti guadagni. Ne sono testimonianza - almeno per quanto attiene al primo tanto agognato settore - il quasi 5% di specializzandi che abbandonano entro il primo anno il loro "sogno" di correggere difetti estetici veri o presunti e danni fisionomici rilevanti (più i primi che i secondi), a causa della delusione per un percorso educativo non corrispondente alle attese. Per non parlare delle evidenti difformità tra scuole di specializzazione, alcune a preparare con serietà e attenzione i medici del domani e altre non all'altezza degli standard qualitativi richiesti.
La soluzione al problema non verrà dai messaggi promozionali (più o meno infruttuosi) del Ministero della Salute, ma dalle strategie che si vorranno adottare - fermo restando il numero chiuso - per costruire una classe medica colta, curiosa, aggiornata e omogenea. Nessun paziente di questo paese può più permettersi (né meritare) giovani finalizzati a scopi di lucro o di disimpegno, né tantomeno una medicina sempre più tecnicizzata e burocratizzata e sempre meno acculturata e umanizzata, tanto più se c'è una questione territoriale ancora tutta da riconoscere, ripensare e ricostruire e che pesa come un macigno sulle scelte politiche future. Resta allora da chiedersi - con non poco rimpianto - dove sia finito quel medico, che io ho ben conosciuto e da cui ho tanto imparato, di cui ha parlato Massimo Cacciari durante una lectio magistralis tenuta a Monza qualche giorno fa sull'antico e benefico rapporto tra filosofia e medicina.
"La filosofia" - ha sottolineato il filosofo e politico veneziano - "riprende da Ippocrate il concetto che il nostro essere è un complesso di elementi distinti ma organizzabili. E per organizzarli occorre una figura capace di misurare, ma anche di armonizzare, questi elementi. Il medico, appunto, la cui arte ( o meglio la techne greca) non ha nulla di empirico, ma deve trovare una ragione e ricercare le cause". Per aggiungere - "La medicina è anche interpretazione, o meglio ermeneutica. Il medico ha a che fare con dei sintomi che vanno interpretati. I sintomi sono dei segni, delle apparenze che rivelano qualcosa di essenziale. Il profondo sta nell’apparenza e per giungere alla realtà occorre interpretare ciò che appare".
E concludere - "Il medico è colui che misura la parte nella sua dimensione rispetto al tutto. Meglio conosce quella parte, più sentirà il bisogno di collegarsi all’intero. Più vedrà connessa quella parte al tutto, più si prenderà cura di quel soggetto. La connessione tra le parti aiuterà a comprendere una specifica patologia". Di fronte a queste antiche e innegabili verità ci si domanda se tra le migliaia di giovani medici che tanto aspirano a ritoccare corpi guadagnando il massimo e lavorando il minimo ci sia ancora qualcuno che discenda da quel filosofo pensoso e intuitivo che, guardandosi dentro, trovò le ragioni più profonde per osservare, interrogare, capire e curare gli altri.