Da sempre la cultura popolare del meridione d’Italia ha associato, forse più per suggestione e superstizione, o meglio ancora, trascinata dal secolare binomio tra magia e medicina, alla figura della vammana quella di strega e janara. Una donna capace di dare la vita come di toglierla o addirittura di far nascere i lattanti storpi e malandati. La vammana, in realtà, era la levatrice che assisteva e aiutava la partoriente; e il termine non ha nulla a che vedere con la parola “mamma”, come si potrebbe ipotizzare, ma è invece riconducibile all’immagine della nascita: il neonato, infatti, nel movimento che compie uscendo dal grembo materno, per venire alla luce, appunto, le “va” “nelle” “mani", che sono pronte, nella posizione che ella assume, ad accoglierlo, “va ’n mmane”.
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A Paduli è ancora viva una delle ultime vammane del Sannio, e probabilmente della Campania, la signora Raffaella Amato, 90 anni, di origini napoletane, segnata da una grande lucidità e vivacità. La signora Raffaella era un’ostetrica di condotta, figura professionale poi assorbita dalle strutture sanitarie, che consegna, nostalgicamente, uno spaccato sociale d’Italia meridionale che sopravvive solo nel ricordo delle persone più anziane. «La vammana doveva stare al servizio del popolo e veniva pagata dal Comune – spiega -. Seguivo le donne, le assistevo, le facevo partorire. Andavo presso le case a piedi, con l’asino o con mezzi di fortuna, anche in piena notte e sempre con la borsa dei ferri».
La vammana sostituiva la figura del ginecologo, seguiva le donne per i nove mesi di gravidanza e riceveva dalla gente ricompense come farina, uova e olio. Quanti bambini ha fatto nascere? «Migliaia, conservo ancora un dei registri sui quali annotavo le nascite. In media venivano al mondo 50, 60 bambini all’anno, quando lavoravo. Ho svolto questa professione per 40 anni, qui a Paduli, fatevi il conto: siamo intorno ai 2000 bambini». Dove faceva partorire le donne? «Il posto più giusto per partorire era il tavolo da cucina. Non avevo la sedia ostetrica mentre il letto normale poteva cedere; si preparava tutto e si metteva una bacinella sotto il tavolo per raccogliere le acque». Chi assisteva al parto? «Il marito se voleva, la suocera, o una donna di famiglia. Quando entravo in una casa di solito cacciavo tutti fuori, non amo la confusione». E’ andata sempre bene? «Solo una volta finì male, la donna fu portata in ospedale e purtroppo… ».
Alla sua figura spesso si dà un valore e una interpretazione mistica, stregata. «Molti pensavano questo – ci scherza su la signora – tant’è che facevano gli abitini per scongiurare il malocchio». In verità, la signora Raffaella era una professionista che aveva studiato presso l’università di Napoli e poi al policlinico. In paese era trattata come una vera e propria autorità «quando c’era una ricorrenza si chiamava il sindaco, il parroco, il maresciallo e la vammana», e non solo «venivo chiamata come testimone per i matrimoni e madrina per i battesimi». Una presenza di buon augurio anche in contesti in cui non era necessaria «spesso, le donne volevano che stessi con loro in ospedale durante il parto. Si sentivano rassicurate. Molti non volevano andare all’ospedale perché avevano paura. L’ospedale era visto, sempre per la gente, come l’ultimo rimedio, quando tutto era andato storto». Nel salotto della signora, insieme a lei durante l’intervista, ci sono anche Gianni Saccone, memoria storica di Paduli e scrittore, che ha aiutato, con i suoi interventi, ad inquadrare la figura della vammana nel contesto storico del meridione d’Italia, e Antonio D’Alessandro, 42 anni, poeta padulese, «la signora ha fatto nascere», commenta, e alla quale ha dedicato proprio una poesia, punto di partenza della storia dell’ultima vammana.
Michele Intorcia