Napoli

C'è un avamposto d'Africa nel bel mezzo del Mediterraneo. A dirla con la storia geologica di questo pezzo di Terra, la prima vestigia popolata affiorante - andando verso l'Italia - della sua millenaria placca tettonica. Chi viene dal continente nero (da cui la dividono solo 60 miglia) la vede come àncora di salvezza dalla guerra, dagli eccidi e dalla fame. Per questo i migranti vi trovano il ristoro temporaneo che precede la loro muta dispersione o la loro presa in carico nel torbido (e quasi sempre remunerativo) mondo dell'assistenzialismo senza progettualità né futuro. È lì che sono andato a cercare più di un riposo, un attimo di riflessione e raccoglimento, in un momento cruciale della mia vita di uomo. I dubbi che mi accompagnavano non erano pochi, e non riguardavano solo i miei giorni futuri. Il luogo in questione è l'isola di Lampedusa, una delle Pelagie, imparentata politicamente con Linosa - si sa perché, ma resta ai più comunque misterioso il per come - di cui condivide sì acque e sole meravigliosi, ma non esattamente coordinate geografiche, appartenenza (più mitteleuropea che africana la seconda) e caratteristiche socio-demografiche, tanto che le due piccole popolazioni (piccolissima quella di Linosa) sembrano provenire da razze lontanissime.

È in quell'angolo microinsulare siciliano (più per dialetto che per aderenza etnica e storica), che in un punto preciso del suo territorio - di cui non farò menzione se non per dire che è bellissimo, accogliente e magico - ho incontrato una ventina di persone, coppie, single, figli e rifugiati (dal lavoro e dal benessere, sia chiaro) con cui ho creato stupefacentemente un gruppo, un insieme irrituale, istintivo e gioioso di individualità, che definire irripetibile è riduttivo. A onor del vero va detto che gran parte del lavoro era già stato fatto negli anni passati. Io, se posso arrogarmi questo diritto, sono stato (con la mia famiglia) la ciliegina sulla torta, poca cosa, ma (mi piace pensarlo) conclusiva. È come se si aspettasse solo noi, perché la navicella spaziale - uno Sputnik mi sembra appropriato - che ci conteneva tutti fosse lanciata nello spazio siderale. Intorno a noi il silenzio, tra le quattro mura di acciaio inossidabile il chiasso, il tumulto, i balli e le risa. Ma non solo. Anche silenzi, sussurri e confessioni. Sembravamo venuti da lontano solo per unirci in un universo più piccolo, fratelli di una famiglia fino a ora sconosciuta, aggregati per una combinazione nient'affatto fortuita. Come ho detto, non è stata tutta gioia. Non c'è stata solo allegria. E come avrebbe potuto essere altrimenti. Di questi tempi poi. Ognuno (io per primo) aveva un vuoto da riempire, un disagio da confessare, un dolore da lenire (qualcuno anche di più). C'è chi ha detto e chi ha taciuto, ma è stato come se tutti avessimo partecipato a una terapia di gruppo, senza tecnica o scienza, solo istinto, e senza escludere nessuno. G. la miniera, F. il kamikaze, D. il vascello, L. la sirenetta, etc etc etc. Poi (purtroppo) la navicella è tornata, l'ammaraggio è riuscito. Ci siamo abbracciati, ma non divisi. Se qualcuno doveva guarire aveva cominciato a farlo. Se qualcun altro doveva trovare il coraggio per salpare era già in mare aperto. Era bastato trovare la forza di ascoltare la voci comuni - "le voci di dentro" avrebbe chiosato qualcuno - da cui (sono certo) non ci saremmo più separati. Ho detto a M. "Ogni cosa è per sempre!". Lui ha annuito, come chi sa quello di cui parlavo. Non mi resta così che rievocare un ricordo -  è giusto sia l'ultimo - di nuovo di M., quando stavamo, ancora felicemente, al calar della notte, lontani dal mondo, nello spazio infinito. Parlando di B., la fortissima B, la fragilissima B., la donna bionica dagli occhi marini da lui amata, mi ha detto: "È il mio superenalotto". Gli ho obiettato: "È il tuo supereroe. Non ti resta che darle un nome".