Napoli

Il 31 luglio del 1944 fu l'ultima volta che qualcuno annotò sul freddo registro di una pista militare francese di aver visto il conte Antoine de Saint-Exupéry alzarsi in volo. Poi di lui non si è saputo più nulla. L'autore de "Il Piccolo Principe" - come non identificarlo col suo libro più famoso, quello delle 200 milioni di copie vendute e delle più di 300 lingue e dialetti in cui è stato tradotto - se n'è andato in una abbagliante mattina di sole estivo, bello e intrepido come un eroe gucciniano.

Quale miglior modo di morire che volando - quello che amava fare dagli anni più giovanili - per chi aveva descritto come nessuno l'evanescenza e l'ingannevolezza della vita. Saint-Exupéry non era un uomo e basta, non era un aviatore e basta, e non era neanche uno scrittore (e che scrittore!) e basta. Era un genio, appassionato e vivo, turbolento e incerto, raffinato e rivoluzionario, sognatore e meticoloso, fragile e fortissimo. A lui devo il fatto di aver imparato il rispetto, che non potevo esimermi di avere, per quello che ero stato, quando cercavo di coniugare (dapprima senza riuscirvi) un corpo ormai adulto con un animo ancora ostinatamente bambino.

Un po' come il colibrì della fiaba africana, che andava con la goccia d'acqua sul petto verso la foresta in fiamme, che tanto amava raccontare Andrea Camilleri. La piccola goccia sul petto era la nostra infanzia  e ce lo ha insegnato Antoine de Saint-Exupéry. Come ci ha insegnato, parafrasando sempre quella fiaba, a fare "la nostra parte", non tradendo, anzi esponendo come una medaglia al valore, il lato bambino.

Provate a rileggere ora solo la dedica all'amico - "il miglior amico" - Leone Werth, tralasciate tanto l'inizio quanto lo svolgimento di quello splendido piccolo romanzo. Cominciate solo dal suo breve antefatto e capirete di cosa parlo. "Domando perdono ai bambini di aver dedicato questo libro a una persona grande" - così inizia. E conclude - "Tutti i grandi sono stati bambini una volta (Ma pochi di essi se ne ricordano). Perciò correggo la mia dedica: A LEONE WERTH, QUANDO ERA BAMBINO". Ora immaginate un adolescente bramoso di letture e alla ricerca spasmodica della sua identità, della sua ragion d'essere, in un mondo gretto e borghese.

Regole contro sogni. Emozioni incastrate negli obblighi. Antoine de Saint-Exupéry giunse col suo omaggio trenta anni dopo la sua scomparsa in quella stanza, non proprio equamente divisa per due, come una luce, un fulmine a ciel sereno, una salvezza, o più propriamente una via di fuga. E lo fece fin dall'incipit, dalla dedica (appunto), posta a premessa della sua piccola e fulgida storia - vi prego non chiamatela favola. Da un conte a un principe il passo per lui deve essere stato breve, ancor più breve se poi vivi una vita piena e avventurosa e il viaggio che non è - mai nemmeno per un istante - altezzoso. Anzi.

In un tempo (era il 1943 quando il libro fu pubblicato negli Stati Uniti) di dittatori, stermini, sbarchi a costo di centinaia di migliaia di vite, gerarchi da strapazzo di ogni ordine e grado, grottesche discriminazioni razziali e bombe atomiche, lui ebbe la forza, il coraggio e la purezza - tra un'impresa temeraria e l'altra - di sedersi a un bello scrittoio in noce di una villa di Long Island e scrivere una storia di volpi, cappelli, alberi, pianeti, elefanti e rose, raccontandola col passo lieve, sicuro e incantato di un bambino, rimasto immutato a dispetto di tutto l'orrore che lo circondava. Perciò il livore dei detrattori di Saint-Exupéry non ha avuto campo, perciò i suoi emulatori hanno fallito. Lui era unico, irripetibile, un dono del Signore, come ne capitano pochi o quasi nessuno. Lui è il nostro piccolo principe, guai a toccarcelo, guai a trasformare quello scrigno di gemme dal valore inestimabile in un imbonitore di innocenti, guai a confinarlo in un luogo, un'età o un genere. Per questo se n'è andato senza salutare nessuno. Semplicemente per non essere da nessuna parte. Come capita a chi, principe o meno, lascia aperta la porta del cuore, affinché ciascuno - a suo modo - possa raggiungerlo.