Avellino

Camillo Benso, conte di Cavour, il teorico del celebre principio «libera Chiesa in libero Stato», in realtà ripreso dagli studi del teologo protestante Alexandre-Rodolphe Vinet (1797-1847), suo grande ispiratore sul piano politico-religioso, mai avrebbe immaginato che a 163 anni dalla sua morte, in una contrada del Mezzogiorno del ventunesimo secolo, una istituzione laica dell’Italia repubblicana avrebbe affidato il suo oscuro destino e la salvezza di una intera comunità alle mani misericordiose e materne della Madonna Assunta in Cielo.

Cavour fu un uomo politico moderno, dal respiro europeo, capace di dialogare dall’alto del suo convinto liberalismo con culture e idee diverse, aperto alla tolleranza e alla difesa dei diritti dei popoli e dell’individuo: si pensi al discorso tenuto al Senato il 16 dicembre 1852 “Per il matrimonio civile” oppure ai potenti discorsi svolti alla Camera dei deputati rispettivamente il 2 ottobre 1860 “Per l’annessione delle province meridionali e il pericolo rivoluzionario” e il 25 marzo 1861 “Per Roma capitale”. Discorsi e idee che hanno caratterizzato la storia dell’Italia contemporanea e l’azione politica di personalità della qualità di Francesco De Sanctis e di Alcide De Gasperi.

Di recente sono stati analizzati da Giuliano Amato 10 suoi decisivi discorsi nel volume “C’era una volta Cavour. La potenza della grande politica” (il Mulino, 2023), che consiglierei di leggere vivamente a chi pretende di fare politica solo attraverso il freddo consenso numerico.

Appare evidente che i discorsi di Cavour, il vero artefice della nostra unità nazionale, non facciano parte delle sontuose biblioteche dei sagaci amministratori avellinesi. Va ricordato, tanto per ribadire la sua “inattualità”, che lo statista piemontese rischiò di essere interdetto dal fratello Gustavo in quanto per fare politica stava erodendo significativamente il patrimonio di famiglia. Altri tempi, altre storie.

Abbiamo richiamato il conte di Cavour ma siamo stati generosi: lui ben sapeva di Avellino e dei suoi intellettuali ma non ebbe modo di visitarla. Questo spiega il perché amministratori e politicanti locali non lo conoscono [sic!].

Veniamo ora alle ragioni del racconto. Intanto vorremmo possedere l’amaro umorismo di Vitaliano Brancati o l’intelligenza sarcastica e fulminante di Ennio Flaiano per raccontare ai lettori quanto ci consegnano le cronache di oggi sull’alzata del pannetto, un rito che si ripete da secoli ad Avellino nel tardo pomeriggio di ogni 26 luglio, giorno in cui si celebra S. Anna, e trova il suo punto di arrivo a ferragosto, ma dobbiamo accontentarci di alcune brevissime considerazioni casalinghe.

Iniziamo dalla descrizione degli oggetti e dei partecipanti. La composizione del “balcone” della curia da cui si è dato il via alle celebrazioni “religiose”, era affollato di personaggi improbabili raccolti intorno al vescovo, unica presenza carismatica della composizione presepiale proposta, e alla versatile neosindaca della città.

Un tripudio di ansiosa esibizione di volti ieratici e di abiti sgargianti, uno schieramento di magica invenzione del vuoto che si ritrova gioiosamente a rinnovare la propria dichiarazione di esistenza in vita sul piano politico-sociale: malgrado tutto.

Monsignor vescovo, che forse avrebbe potuto far limitare l’accesso al palazzo con più fermezza e meno cristiana concessione, circondato da così tanti fatui e blasfemi allori, non ha potuto fare altro che accennare ai problemi di una città in ginocchio sul piano del lavoro e dell’accoglienza, tanto per giustificare la sua di presenza tra così troppo invasivo protagonismo paesano.

La storica e, per molti versi, sacra Piazza della Libertà si è rivelata una naturale platea teatrale, fornita anche di un loggione chiassoso e partigiano, uno spazio composito, intriso di significati e di bizzarre scoperte antropologiche.

La folla entusiasta non si è risparmiata e nelle sue prime file ha saputo raccogliere il calore di una curva da stadio pur disvelando i labili confini tra le prescrizioni del tifo e le scarne sopravvivenze rituali, tra oscillazioni vertiginose verso il folclore e la difesa di una più degna religiosità popolare, del tutto dissolta quest’ultima sotto il peso di una rappresentazione coordinata dallo stantio e prevedibile flusso del mancato ravvedimento operoso. A dire il vero in quella piazza avremmo auspicato la presenza di un erede di Ernesto De Martino per poter ricavare dati assai interessanti sul versante della ritualità e della magia ma dobbiamo limitarci alla cronaca.

Nel frastuono dell’evento ci concediamo uno spunto finale sulle invocazioni conclusive rivolte alla Madonna Assunta. Giovanni nell’Apocalisse scrive: “Un gran portento apparve nel cielo: una donna vestita di sole, la luna sotto i piedi, e sul capo una corona di dodici stelle” (Ap. 12, 1-3) il cui compito è rivolto alla salvezza dell’Umanità (Ap. 12, 1-18).

La fede è una cosa profondamente seria per poter noi affrontare una sommaria analisi senza tener conto del rispetto dei veri credenti, di coloro che praticano la religione cattolica con rigore morale e soprattutto coerenza di comportamenti. Quelle invocazioni spettacolari appaiono del tutto inappropriate in quanto ostinatamente confliggono con comportamenti, pensieri, parole, opere e omissioni: non stiamo facendo purtroppo un lieve richiamo ad una stupida canzone di Claudio Baglioni del 1999.

Un pomeriggio quindi inaccettabile, privo di slanci eretici ma intriso di ingenua blasfemia e testarda ignoranza, su uno sfondo ingrigito dalla perenne riproduzione di una realtà oppressa dalla morsa di un fato illogico e dolorosamente racchiuso nella difesa ad oltranza di egoismi sfacciati in un ordine di cose disgraziatamente e puntualmente verificabile. Con l’evangelista Giovanni non resta che udire «una voce in cielo che diceva: - La salvezza è compiuta …» (Apo. 12, 10-11).

L'autore è Professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale