Tutto è cominciato quando bambini apparentemente menomati psichicamente o intellettivamente hanno, all'inizio degli anni '40, cominciato a essere osservati dalla classe medica in maniera meno spocchiosa e inconcludente. Così da un'idea di puro ebefrenismo o, addirittura, di schizofrenismo infantile - e quindi da un paradigma tutto psicogenico - si è passati a un'ipotesi eziologica strettamente organica di quello che il medico statunitense Leo Kanner - riferendosi in particolare a un bambino di 10 anni difficilmente inquadrabile sul piano clinico - chiamò autismo.
Il piccolo paziente si chiamava Donald Triplett e, a dispetto di qualche "difficoltà relazionale" e di alcuni comportamenti "innaturali" o "bizzarri", avrebbe avuto grande successo nella sua lunga vita, diventando un ricco banchiere e morendo all'età di quasi 90 anni e per cause del tutto indipendenti dalla malattia per la quale era diventato famoso come paziente numero 1.
Il termine, che connota una patologia così complessa e terrificante per la gran parte dei genitori che se la sentono spiattellare in faccia da medici più o meno compassionevoli, trae la sua origine dalla parola greca "autos", che tradotta in italiano significa "stesso", o meglio "sé stesso", a indicare un bambino (ma non di rado la malattia è diagnosticata ben più tardi nella vita) che è chiuso in un mondo tutto suo, interagisce poco o nulla con l'ambiente circostante (ma più con gli occhi che col cuore), ha comportamenti ossessivi e/o ripetitivi, comprende o utilizza poco e male i suoi linguaggi verbali e non verbali, è apparentemente privo di empatia e interesse per chi o per ciò che lo circonda, sembra non riuscire a discostarsi in alcun modo da una routine per lui salvifica, polarizza i suoi interessi su aspetti estremamente ristretti e scarsamente modificabili, possiede una sensorialità per lo più distorta sia in senso amplificativo che difettivo e non sempre (o quasi mai) riesce a percepire e a elaborare correttamente le informazioni che gli vengono di volta in volta presentate. Insomma il bambino autistico è un paziente nella maggior parte dei casi problematico per i suoi caregivers (genitori in testa) e per la società. O almeno questa è l'immagine primaria che ci vediamo restituire da iconografie più o meno veritiere sull'argomento.
Ma le cose non stanno esattamente così. Innanzitutto poche patologie neuropsichiatriche infantili presentano crismi così radicati nella eterogeneità e nella multiformità clinica, passando da profili oggettivamente gravi - connotati da severa ipodotazione psichica, epilessia, importanti disturbi comportamentali e rilevanti danni extraneurologici - a forme di fatto mascherate da personalismi, bizzarie, originalità e intuitività tanto straordinarie da annoverarle tra le espressioni più alte dell'intelligenza e della creatività.
In questo incomprensibile passaggio dal molto poco al molto tanto, l'Associazione Psichiatrica Americana, nel rivedere a scadenze più o meno regolari il suo Manuale Diagnostico e Statistico (nel cosiddetto DSM, giunto alla sua quinta edizione, peraltro già aggiornata), ha voluto identificare un continuum fisiopatologico e sintomatologico, preferendo parlare più che di un'unica entità patologica di uno spettro di disturbi che vanno dalla bassa funzionalità socio- emozionale di alcuni all'alta di altri. Un nome su tutti per questo secondo sfavillante fenotipo clinico è dato dalla sindrome di Asperger.
Il problema ora è che per una somma tuttora sconosciuta di motivi tutto questo nebuloso mondo di sintomi e segni è in crescita esponenziale e non tutti i sistemi sanitari (il nostro men che meno) sembrano essere in grado di rispondere adeguatamente alle richieste sempre più pressanti delle famiglie in affanno. Si aggiunge la mancanza di terapie farmacologiche efficaci e - almeno per il nostro paese - di un tessuto gestionale adeguatamente validato e uniforme su tutto il territorio nazionale.
Così a chi mi chiede di indicare una strada per assicurare a tanti bambini e tanti adulti (non dimentichiamoli) un futuro degno di essere vissuto, dico che tra terapie comportamentali, supporti psicologici a pazienti e caregivers, nuove frontiere occupazionali qualcosa si muove, ma ancora troppo lentamente, e che in attesa che la strada da percorrere diventi maestra, si inizi da noi, da tutti noi, dalla lezione che dobbiamo dare innanzitutto ai nostri figli, quella di includere chi ha questa patologia, qualunque sia la sua declinazione funzionale, nel nostro tessuto sociale.
È il primo passo per una collettività non solo più giusta, ma anche e soprattutto più ricca di volti, sentimenti, espressioni, mutevolezze e fertilità, benefiche e necessarie a tutti, anche a quelli che credono di essere migliori di questi o di altri "diversi".