Napoli

Un bell'articolo pubblicato il 19 maggio scorso su Avvenire da Elena Molinari - giornalista italiana naturalizzata statunitense e inviata per il suo giornale in quel complesso e affascinante paese - dal titolo "Nelle prigioni americane il "fine pena mai" uccide più del boia", ha messo in evidenza un problema drammatico insito nell'ordinamento giudiziario stesso della nazione dove ci si compiace del fatto che "ogni uomo può realizzare i suoi sogni".

"Il numero di anziani che finiscono i loro giorni in carcere continua ad aumentare" - afferma l'articolo -  a causa del fatto che "pene detentive più lunghe e il ricorso sempre più frequente all’ergastolo ostativo hanno moltiplicato per cinque (portandoli fino a 280.000 ) in vent’anni i detenuti con più di 55 anni, che le prigioni classificano come "geriatrici"".

Sempre da quell'articolo scopriamo anche che "la fascia di età sopra i 55 anni rappresenta due terzi dei decessi nelle carceri statali confederate. Erano il 34% nel 2001". Se aggiungiamo che, come asserisce Dan Pfarr, amministratore delegato di un'organizzazione non profit nel Minnesota, 180 Degrees, "in prigione, 40 anni sono 60, e 60 sono 80" e che "tanto l'attenzione per lo stato di salute del prigioniero quanto la sua riabilitazione sociale sono sempre meno al centro degli scopi del sistema carcerario statunitense",  si comprende come finire dietro le sbarre da quelle parti con condanne lunghe o addirittura a vita, qualunque sia il reato commesso, equivale nella maggior parte dei casi a una strada senza uscita, come accadeva al dannato che faceva ingresso nell'inferno dantesco e vi trovava l'apocalittica frase, "lasciate ogni speranza, o voi che entrate".

Emblema di ciò è quanto Frank Darabont, regista del bellissimo film del 1994 Le ali della libertà, fa dire a Morgan Freeman allorchè, dopo lunga e tormentata prigionia, risponde al giovane presidente di una commissione per la libertà condizionata che gli chiedeva se si sentiva o meno riabilitato. "Non passa un solo giorno senza che io non provi rimorso, non perché sono chiuso qui dentro o perché voi pensate che dovrei." - esclama l'egastolano -  "Mi guardo indietro e rivedo com’ero allora, un giovane stupido ragazzo che ha commesso un crimine orribile, vorrei parlare con lui, vorrei cercare di farlo ragionare, spiegargli come stanno le cose, ma non posso, quel ragazzo se n’è andato da tanto e questo vecchio è tutto quello che rimane e nessuno può farci niente. Riabilitato? Non significa un cazzo. Quindi scriva pure quello che vuole nelle sue scartoffie, figliolo, e non mi faccia perdere altro tempo, perché a dirle la verità, non me ne frega niente“.

Come fa notare un rapporto della Columbia University, fra 2010 e il 2020 nei penitenziari di New York sono morte più persone di quelle uccise in esecuzioni capitali durante i 370 anni in cui la pena di morte è stata legale nello Stato. Il rapporto conclude che l’ergastolo rappresenta «il nuovo boia», soprattutto negli Stati dove le esecuzioni sono state messe fuori legge. "Se non puoi uccidere qualcuno con l’iniezione letale, puoi farlo rinchiudendolo per decenni" – spiega Melissa Tanis, coautrice del rapporto – "È una scappatoia utilizzata per punire le persone in un modo che non riconosce la loro umanità e la loro capacità di cambiare. Quando si è in prigione da decenni, il motivo per cui vi si è arrivati diventa irrilevante".

Se a questi fatti, per certi versi agghiaccianti, aggiungiamo un altro dato, ancora più sconcertante, e cioè che, secondo uno studio di una decina di anni fa della prestigiosa University of Michigan Law School, circa il 4% - pari a ben 340 persone - di coloro che erano entrati tra il 1973 e il 2004 nel braccio della morte dei penitenziari americani era innocente e che di questa quota solo 1,7% - 144 persone -  è poi uscito vivo per un ravvedimento estremo del sistema giudiziario, si comprende come in quel paese il rischio di infliggere ingiuste pene capitali non è di poco conto e il pericolo di un percorso giudiziario lacunoso anche per condanne severe o inesorabili è sempre dietro l'angolo.

Solo per questo sono contento che Chico Forti, colpevole o innocente che sia, è tornato a casa. Certo il fatto che il fratello della vittima lo scagioni dell'efferato delitto di cui è accusato, e per il quale ha già scontato 24 anni di carcere, dà non poco da pensare.

Altra cosa è se sia stato opportuno o meno che la premier Meloni sia andata a salutarlo (non ad accoglierlo, le due cose sono ben diverse), anche se il "cinismo della politica", in questo come in altri paesi, aumenta a dismisura in epoca preelettorale e a ciò dovremmo essere tutti assuefatti, innocentisti e colpevolisti compresi. Altra cosa (ancora) - e qui i miei dubbi scemano e non di poco - è titolare a tutta pagina su un quotidiano nazionale "Benvenuto assassino", più per stigmatizzare il gesto del politico avversato di turno che non per affermare principi morali sui quali peraltro (credo) concordiamo tutti. Così facendo, infatti, finiamo col disonorare tutti quegli uomini inconcepibilmente morti nelle carceri americane, chi per una (comunque) illegittima esecuzione e chi per una vecchiaia giunta prima del suo tempo e in uno stato di cattività degradante, sorda e ingiusta.