«Ad Atripalda, terra d’Irpinia, per esempio, vi è un tizio che risulta iscritto a tre partiti (quello d’Azione qui non è in causa) e nessuno di essi ha finora avuto il pudore di espellerlo». Guido Dorso, Trasformismo sempre vivo, in “L’Azione” di Napoli del 10 agosto 1945.
La drammatica quanto variopinta situazione avellinese di queste settimane preelettorali, tanto per usare un termine caro a Machiavelli e a De Sanctis, situazione appunto, ci sollecita ad un richiamo storico non privo di qualche non remotissima analogia con l’oggi.
La domenica del 5 novembre 1944, al teatro Giordano di Avellino, il conte Nicolò Carandini, ministro senza portafoglio del secondo governo Bonomi, ripropose ad una platea che faticosamente si riabilitava all’uso della libertà dopo un ventennio di dittatura fascista il programma del neo-liberalismo italiano, “autonominato custode della libertà”. Tra il pubblico vi era ad ascoltarlo, con il suo volto ironico ed elegante, Guido Dorso, che cinque giorni dopo, il 10 novembre, invitato dalla “Voce” di Napoli, pubblicava un lucido quanto severissimo resoconto del discorso di Carandini.
L’articolo, raccolto nella silloge L’occasione storica, edita postuma da Einaudi nel 1949, esprimeva la radicale critica dorsiana, già anticipata nei mesi precedenti nelle prime collaborazioni al settimanale “L’Azione”, alla vecchia classe dirigente liberale, avviando l’analisi da una ancora interessante e attuale premessa ossia che la dottrina meridionalistica “da vent’anni, ha una cellula, modernamente informata e politicamente all’avanguardia, proprio in Avellino, dove, prima che altrove e con maggiore intensità, è stato fatto il processo allo Stato storico ed alla decrepita classe politica meridionale”.
Gli avellinesi, consapevolmente curiosi, attendevano dall’oratore una lettura in profondità della Questione meridionale mentre, delusi, avevano dovuto ascoltare il solito richiamo all’abusata “derivazione che il Mezzogiorno è la riserva della saggezza politica italiana”.
Nella sua ricostruzione Dorso accusava i partiti e i suoi esponenti - radicali, democratici, liberali e demo-liberali - di aver contribuito, con l’aiuto del “loro sterminato seguito di mestatori e di corruttori”, ad alimentare “l’immobilità politico-sociale del paese”. Senza tentennamenti, il nostro meridionalista poteva affermare che “nel Mezzogiorno vi è un cadavere che ammorba l’aria col suo fetore, ed è la classe politica meridionale”.
Di questo intervento ci ha sempre colpito il richiamo ad un’Avellino che accoglieva tra le sue vie, i suoi caffè e i suoi palazzi “una cellula, modernamente informata e politicamente all’avanguardia”. Una città abitata certo da tanti cittadini conformisti e “saggi”, ma comunque animata da una élite aggiornata, intellettualmente rivoluzionaria, capace di raffinate analisi sulla realtà del tempo nonostante l’occhiuto controllo degli organi repressivi del governo locale in camicia nera.
Dopo ottant’anni cosa resta di quella eredità? Dopo ottant’anni come si pensa di affrontare la modernizzazione e le grandi trasformazioni in corso? Già, le trasformazioni non i trasformismi che hanno caratterizzato quest’ultimo amaro trentennio.
Eppure gli antenati, coloro che nel lessico dorsiano si oppongono ad ogni concreta rivoluzione e moralizzazione della vita pubblica, ostacolando le nuove forze culturali e civili, si sono autonominati garanti della Verità, della Legalità e della Democrazia. Mentre l’Avellino smarrita affonda nelle sue sterminate contraddizioni, Destra e Sinistra, termini questi usati con voluta superficialità lessicale in un contesto dominato dall’indistinto, affrontano dilemmi amletici su chi scommettere. A volte qualunquista e familista, la città prova a rintracciare candidati, possibilmente portatori di voti con la vocazione al libero scambio, mescolando storie, provenienze, profili, come in un infinito, inverecondo, gioco dell’oca.
Signori degni di figurare tra i personaggi del folgorante e beffardo testo teatrale L’onorevole di Leonardo Sciascia, si affannano a rivendicare la propria intransigenza in un paesaggio di rovine, che si lascia mollemente intridere da compromessi, cedimenti, tradimenti.
In queste ore apprendiamo che qualcuno continua a richiedere al regnante salernitano e alla sua corte familiare bolli a secco che potrebbero gareggiare con quelli emessi dalla Repubblica di San Marino per turisti e bagnanti domenicali.
Sia il centrodestra, un insieme di porte girevoli senza entrate che per mentalità non coglie il favore del vento, che il centro che sciaborda verso sinistra, si aggirano con l’appetito delle iene intorno al disfatto patrimonio elettorale delle liste civiche. A proposito. Siamo del tutto convinti che quei voti possano essere recuperati alla causa del tanto urlato, furbesco bisogno di Rinnovamento? Di un cambiamento sempre più richiesto dal ringalluzzito esercito di antenati, ricomparsi come fiori nel deserto dopo la rovinosa, per molti aspetti, drammatica e impietosa caduta di colui che uscì vittorioso dalla competizione del 2019?
Potremmo avere mirabolanti sorprese se le truppe in rotta scegliessero intelligentemente di riorganizzarsi e raccogliersi intorno a nomi nuovi, ad outsider che, pur non figurando nel Canape avellinese tra i favoriti, inaspettatamente, andrebbero a sollecitare le più segrete attese o delusioni di tanti.
Manzoni nella Storia della colonna infame invocava un tribunale della coscienza, Avellino, più modestamente, richiede un ricambio autentico sul piano politico e civile, per poter auspicare finalmente lo sgretolamento di un sistema complesso, articolato, un Boss system come lo classificherebbe Percy Allum, che storicamente genera corruzione, organizza clientele, produce trasformismo.
L'autore è Professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale