C'è qualcosa nel sorriso - sia esso aperto e disarmante oppure formale e ostico - che nasconde più di una semplice storia personale. Ne incontriamo di tutti i tipi nella nostra vita quotidiana. Perfino quando a mostrarceli sono quelli che ci hanno da sempre rinunciato e rispondono a un saluto o a una battuta più con un ghigno che con quella meravigliosa distensione di lineamenti, rughe e pieghe, benefica a sé stessi e agli altri.
In base a quanti e quali muscoli facciali sono coinvolti, c'è chi si è preso pure la briga di suddividere il sorriso in spontaneo (quello che impegna ogni parte del viso), simulato (che interessa solo i muscoli zigomatici) e forzato (quando è coinvolta unicamente la muscolatura facciale inferiore). Flettere i "muscoli ai lati della bocca" non basta infatti, a connotarlo come tale, perché il sorriso è molto di più di una semplice espressione formale di un volto, è lo specchio della nostra anima, che travalica il momento, l'attimo fuggente, la contingenza, e ci rappresenta nella nostra interezza, svelando talora pezzi di noi che vorremmo perfino celare o dimenticare.
Un sorriso, insomma, è un atto talmente complesso e poliedrico da poter portare con sé anche il lato d'ombra di ogni personalità, la nostra parte più dolente. Quante volte, infatti, utilizziamo nel linguaggio corrente l'ossimoro "sorriso triste", a indicare quel qualcosa di inesplicabile e mutacico che vediamo comparire sul volto di qualcuno che ci compiace di una garbata cortesia contaminata però da una enigmatica mestizia. Ma il sorriso è anche meravigliosa sinergia tra addendi facciali, tutti necessari al computo finale dei momenti di felicità delle nostre vite, quando diciamo che "ci ridono gli occhi". Anche questi ultimi entrano, infatti, nel gioco distensivo e accogliente di un volto, senza il quale saremmo psicologicamente più fragili e socialmente più monchi.
Héloïse Junier - psicologa parigina particolarmente impegnata per i diritti dei bambini e per una loro educazione basata sui dati scientifici - ha scritto recentemente che "l’umorismo e` la manipolazione volontaria dell'incongruo (cioe` la bizzarria, lo scarto che si crea giustapponendo due elementi contraddittori) a scopo di divertimento. L’incongruita` provoca in chi ascolta un conflitto tra l’atteso e l’inatteso, di cui la risata o il sorriso sara` la conseguenza naturale". In realtà non tutti gli psicologi sono d'accordo sulla presenza intrusiva della "incongruenza" in un'epoca così precoce della vita. Secondo Carlo Bellieni, professore ordinario di pediatria all'Università di Siena e uno dei massimi studiosi del significato psico-sociale del sorriso nei bambini, intervistato qualche giorno fa da Elena Dusi per Repubblica, è l'adulto in realtà quello che "ride come reazione a due fasi", la prima caratterizzata da "un momento di sgomento", dove la paura per l'imprevisto o l'inaspettato prende il sopravvento su curiosità e inatteso, e la seconda in cui "ci si rende conto che quanto ci ha sorpresi e preoccupati per un attimo si mostra innocuo e a quel punto ridiamo. La risata è, quindi, una comunicazione non verbale di aver colto questa incongruenza, averla compresa e aver capito che non fa male".
Secondo il professor Bellieni per i bambini, invece, non sarebbe proprio così. A suo giudizio, infatti, certamente non lo farebbero per gioia o per liberazione. Per loro entrerebbero in gioco significati ben più profondi e quel gesto sarebbe, pertanto, "un indicatore della loro crescita mentale che si dipana anche attraverso le fasi di sviluppo della risata che sono tre: imitazione e approvazione, stupore, giudizio".
Il sorriso per un bambino sarebbe così il sonar del mondo a lui già noto - quello subacqueo in cui è vissuto fino al momento della nascita - mutato in periscopio. Ciò spiegherebbe perché in media un bambino ride 300 volte al giorno a 4 anni, mentre un adulto solo 17, come affermato in una recente pubblicazione dell'Università del Kentucky. Non già per felicità, ma per conoscenza.
A me piace, però, pensare che è in questo scarto, non solo numerico, che risiede tutta la differenza del mondo tra ciò che avevamo nel nostro patrimonio di benessere da bambini e ciò che ci è miseramente rimasto di quella immensa ricchezza da adulti, al di là di ogni riflessione scientifica o pseudotale. Che ciò sia avvenuto perchè smettiamo di imitare, indagare, scoprire, bearci e crescere o (più verosimilmente) perché rinunciamo progressivamente ad aprire il nostro cuore al mondo circostante, il risultato finale resta un impoverimento emozionale più fatale alla nostra salute mentale e fisica di quanto pensiamo. Così diventa più convincente la tesi di Bellieni che quella della Junier: da adulti sorridiamo per scampato pericolo e non per primordiale fiducia. E sennò perché i bambini giapponesi, che sorridono almeno il doppio di quelli occidentali, sarebbero secondo una recente pubblicazione di Lancet tra i più sani al mondo?