Il quotidiano romano Il Messaggero ci aveva avvertiti, l'Olimpico sarebbe stato un catino infernale, traboccante di tifo, passione e - dico io - di altezzosa, cieca, razzistica stupidità.
La ferita, temo ormai insanabile, lasciata dall'agguato ultrà giallorosso nella notte della finale di Coppa Italia del 2014 contro la Fiorentina che costò la vita a Ciro Esposito, rende, ogni volta, la sfida tra Roma e Napoli, in particolare là in terra laziale, la madre di tutte le occasioni perse, quella di ravvedersi, comprendersi e riavvicinarsi. Nessun cenno di scuse da parte del tanto loquace José Mourinho, nessuna nota anche marginale del suo club, nessun ricordo reverente dei tifosi romanisti, nemmeno una parola sui giornali e nelle televisioni della capitale.
Eppure credo che ogni valore sportivo sia imprescindibile da uno morale di pari peso e sostanza. Queste erano le vere premesse di una partita che avrebbe dovuto invece sancire innanzitutto appartenenza non discriminatoria, rispetto e amore per i colori calcistici propri e altrui, difesa a oltranza dello sport e della vita contro l'odio e la morte. In ogni caso Roma-Napoli, al di là delle chiacchiere da (retro)bottega aveva tutte le caratteristiche per essere il nodo scorsoio perfetto per la SSC Napoli, dentro cui rimanere impigliati, se non addirittura strozzati.
C'erano stati pure i soliti strombazzamenti da resa dei conti di quell'aizzatore di masse che era - sempre lui - José Mourinho che, per non farsi mancare nessuna volgare menzogna, aveva addirittura avuto il coraggio di dire che le due sconfitte, patite per mano azzurra nell'anno dello storico scudetto, erano entrambe immeritate. Peccato non ricordargli che nella partita di andata all'Olimpico persa per 0 a 1 con uno splendido gol di Osimhen si erano difesi per 95 minuti in 30 metri e non avevano fatto neanche un tiro in porta.
Alla prova dei (nuovi) fatti, comunque, il (nuovo) Napoli fallisce ancora, metà per suo demerito e, come avevo vaticinato, metà per una performance, che definire obbrobriosa è dir poco, di uno scalzacane d'arbitro mandato - da chi sappiamo bene - a dare il mirato colpo di grazia a un Napoli scomposto e boccheggiante di suo. Peraltro uno di quelli che dovrebbero costituire l'ossatura futura di una associazione, quella arbitrale, malata fin dentro le sue viscere da tempo ormai immemorabile. Ciò non può costituire, tuttavia, giustificazione alcuna per una squadra che ha perso (da un po' meno tempo degli altri) la bussola e non sa più ritrovarla.