Avellino

Cosa si costruisce? Cosa si distrugge? Dove stiamo andando? Lo ignoriamo in gran parte, ma lo è paradossalmente per il fatto che qualche cosa l’abbiamo compresa: con l’aiuto di conclusioni nuove e inattese noi dipendiamo sempre di più da eventi che ci appartengono.

Allora, come conoscere ciò che accadrà domani se la cosa dipende in parte da ciò che faremo?

Si tratta di una domanda difficile dato che ormai siamo coscienti di rosicchiare sempre di più avidamente il frutto terrestre che ci sopporta, e non sappiamo come frenare questa cattiva tendenza. Allora noi abbiamo il presentimento che questo avvenire, che stiamo parzialmente per determinare con le nostre azioni, con le nostre scelte, e con le nostre non scelte, potrebbe rivelarsi in modo radicale diverso. E, nel nostro profondo io, ne abbiamo paura.

Bisogna dire che, trattandosi per esempio del cambiamento climatico, della biodiversità, della deforestazione, dell’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria, tutti gli indicatori sono allarmanti, e tutte le proiezioni inquietanti. L’idea di un avvenire comune e desiderabile si trova in uno stallo politico e intellettuale. Il futuro ha paura del vuoto, e si lascia dunque investire da ogni sorta di angosce. Vittima collaterale del nostro svezzamento profetico, questo futuro è diventato difficile da prevedere: trattandosi per esempio del 2050, noi siamo incapaci di costruire un progetto che abbia un peso similare a quello che aveva l’anno 2000 nell’immaginario degli ultimi decenni del XX° secolo.

Questo spiega il fatto che nel novembre 2018 un vasto studio della Fondazione Bertelsmann, realizzato in cinque paesi europei (Francia, Italia, Germania, Spagna, Polonia) ha potuto freddamente rivelare che il 67% delle persone intervistate preferirebbe “vivere nel passato” (senza comunque che questa vaga espressione possa precisare qualcosa). Ma che ne sarà del nostro futuro lontano? E quello della Terra tra 250 milioni di anni? Paradossalmente esso si annuncia meno incerto del nostro futuro prossimo.

Nella importante rivista scientifica “Nature”, datata 05/10/2023, ricercatori di discipline diverse hanno incrociato le loro previsioni, e le loro previsioni fanno paura. Di che si tratta? La deriva dei continenti li porterà gli uni vicino agli altri in modo da formare un blocco unico, la “Pangea Ultima”. Questa evoluzione sarà certamente lenta, ma non tranquilla: avvicinandosi fino a penetrarsi, i continenti scateneranno un’intensa attività vulcanica con produzione di gas ad effetto serra. Il Sole vedrà aumentare la sua attività del 2,5%. Pertanto farà molto più caldo. L’esistenza di un solo supercontinente comporterà la formazione di giganteschi deserti all’interno, dove non vi saranno piogge. In altre parole, per parlare come Maynard Keynes, “sul lungo termine, saremo tutti morti”.

Il destino della Terra, che non dipende dalle nostre azioni presenti e future, sarà determinato dalle leggi della fisica. Il supercontinente del futuro sarà la tomba della politica, schiacciata in fine dalla fisica implacabile. Nello studio di “Nature” l’attività umana non fa più parte dell’equazione: è messa in scena la storia intrinseca della Terra, che è iniziata molto prima della nostra apparizione, e che si prolungherà per tantissimo tempo dopo di noi. Tutto questo ricorda la burla che il compianto Hubert Reeves, grande astrofisico e divulgatore, raccontava spesso. Due pianeti discutono, e l’uno dice all’altro: “Io non vado bene, credo di aver contratto un’umanite”. E l’altro risponde: “Non ti preoccupare, vedrai, passerà presto e tu non avrai nessuna complicazione e nessuna conseguenza”.

L'autore è Medico - Endocrinologo