Napoli

La notizia è apparsa sul web alle 03:33 del 1 novembre ed è subito apparsa, nella sua fredda elencazione di dati, agghiacciante. Non si trattava, infatti, di una lista di cose deteriorate o accantonate, quelle che possiamo ritrovare in un vecchio casolare di campagna e che qualche robivecchi viene a portar via per noi. Masserizie - perfino quelle povere suppellettili raccontano storie ed epiloghi - a cui dare un occhio distratto prima di dismetterle per un chissà dove. Il comunicato, apparso al sorgere ancora notturno del mese di novembre, proprio nel giorno in cui i cristiani nel mondo festeggiavano tutti i santi, esordiva perentorio - "L'Unione Medica Euro Mediterranea (Umem) lancia un appello al governo italiano e ai governi europei per aiutare la popolazione di Gaza". E proseguiva - "L'ultimo bilancio da parte di nostri medici e operatori sanitari a Gaza è questo: più di 8000 morti, di cui 3350 bambini, 2080 donne, 500 anziani. Più di 2000 cittadini intrappolati e scomparsi sotto le macerie, di cui più di 1020 bambini. Più di 120 morti tra i medici e professionisti della sanità. 2000 studenti e 70 insegnanti morti. Più di 57 cliniche e 12 ospedali e 32 servizi sanitari non erogano servizi come prima. Più di 100mila tra operatori sanitari, feriti e civili e bambini a rischio, che mancano di tutto. Più di 25 ambulanze danneggiate. Più di 14mila tra pazienti e feriti e civili sono presso l'ospedale Gerusalemme di Gaza. Più di 35 giornalisti sono morti. Numerosi morti ancora per le strade e sotto le macerie. In aumento continuo la diffusione delle malattie infettive, gastroenterite, scabbia, colera, malattie dermatologiche per motivi di scarsa acqua e cibo non pulito".

Silenzio. Una lunga, accorata pausa. Prendiamo fiato. Rileggiamo. Vergognamoci. E non per il nuovo resoconto sanguinoso, sempre e comunque ingiustificabile, di un'altra guerra alle porte dell'umanità (ma di quale umanità parliamo?) - a questo dovremmo essere avvezzi oramai - bensì per non essere stati in grado, noi e chi per noi, prima, durante e (perfino) dopo gli eventi qui raccontati, come in tutti gli accadimenti bellici di sempre, ad anteporre la ragione altrui alla nostra.

"Chi preferisce che abbiano ragione gli altri" - ha scritto nella sua poesia più bella Jorge Luis Borges - non già per remissione o viltà, ma perché è dagli altri che impariamo a essere migliori, è tenendo in debito conto l'altro che costruiamo la nostra pace, a qualunque latitudine e in qualunque comunità, piccola o grande che sia Tutto quello che accade, infatti, è il frutto, direi tanto necessario da apparire fintamente naturale, di ciò che lo ha preceduto, che sia avvenuto da poco o nella notte dei tempi. Chi doveva condividere un bene si è appropriato di tutto, chi sarebbe stato meglio che tendesse una mano l'ha usata per recidere un sogno, una speranza, un futuro a persone meno fortunate o solo "diverse". Chi aveva una vita, ne è stato privato, perchè ucciso o spogliato dei suoi beni (non solo materiali) e della sua dignità, talvolta in una catena di accadimenti senza sosta, dove il torto ha preso il sopravvento, ma solo per poco, soppiantato, com'è stato, da una nuova "leggitimità", divenuta a sua volta spuria e parziale. Confesso di esserne stanco, come uomo e (ancor più) come medico. Credo lo fosse a maggior ragione mio padre, quando sfollava con la sua famiglia per la follia di un tizio con i baffetti che era stato capace di trasformare un intero popolo in un unico, implacabile carnefice, una moltitudine di Caino per sempre.

Come non ricordare Salvatore Quasimodo e la sua splendida "Uomo del mio tempo": "Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo". E ancora - "Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace, è giunta fino a te, dentro la tua giornata." Il 27 ottobre scorso mi sono recato in una splendida (e a me sconosciuta) chiesa di Materdei, quella di Sant'Agostino degli Scalzi, per assistere al primo spettacolo teatrale della nuova stagione (la decima) della rinomata e attivissima  associazione culturale napoletana Wunder Kammer, camera delle meraviglie.

La rappresentazione in questione era in realtà un monologo, scritto dall'eclettico e straordinario autore napoletano Diego Nuzzo e recitato dal bravissimo attore Paolo Cresta, uno dei preferiti di Maurizio De Giovanni per interpretare in teatro le sue opere. Il titolo della piece era "Lo spazio nel mondo" e narrava la seguente storia: "La mattina del 29 novembre del 1938 un uomo sale sulla torre della Ghirlandina a Modena e si getta nel vuoto. In tasca aveva diverse banconote di grosso taglio e due lettere: una per il re e una per Mussolini. Il danaro serviva a evitare che i fascisti dicessero che si era ucciso per motivi economici. L’uomo era, infatti, Angelo Fortunato Formìggini, scrittore, bibliofilo ed editore prolifico ma, soprattutto, per il fascismo, ebreo. E subito dopo la promulgazione delle leggi razziali decide di compiere un gesto eclatante: di sfida, di orgoglio, di dignità."

La tensione drammatica del tragico evento si congiungeva e confondeva con le riflessioni dell'uomo sulla sua vita personale e sul momento storico che stava vivendo. Riflessioni amare e universali che danno conto del fatto che 85 anni sembrano trascorsi invano, trasformando tutto il tempo dell'Uomo in un solo, tragico, incompreso istante. Con le colpevolizzanti parole là pronunciate dall'editore modenese prima del gesto estremo ci sembra di riascoltare le concitate voci notturne dei plotoni di esecuzione, i loro abbaglianti rinculi, di riprovare le assordanti paure della gente comune, e di riassistere impotenti alle smodate invasioni domestiche o alle brutali persecuzioni di donne, vecchi e bambini - gli uomini liberi divenuti merce - per domandarci sgomenti perché ci stia riaccadendo. E, come in quell'epitaffio per l'antieroe che va a morte, così magistralmente messo in scena da Nuzzo, temo, ci toccherà (ancora) ritrovarci nella muta impotenza di chi guarda un corpo lanciato in un vuoto meno ipotetico e lontano nel tempo di quanto crediamo.