C'è un pezzo della storia di ogni guerra che non va ad aggiungersi al rendiconto ufficiale, quello dei cronisti e degli "esperti", professori o militari che siano. Ed è quello del computo muto di tutti coloro che non l'hanno determinata e che, nella maggior parte dei casi, l'hanno solo dolorosamente subita. Non mi riferisco solo alle genti che fuggono o muoiono per l'astruso schiribizzo di qualcuno, qualunque sia la "buona ragione" che l'avrebbe dovuta o potuta "giustificare". Peccato che quelle masse senza nome né volto per i libri di storia e i reportage dei telegiornali, che qui sono le vittime necessarie "di uno scopo supremo", "di una risposta proporzionata all'offesa" o di una "guerra...per costruire la pace" (argomenta neghittosamente qualcuno), siano le stesse che giornalisti e intellettuali di palato fine sono pronti a difendere fino alla loro (finta) morte, fuori ai pronto soccorso di un ospedale, nelle discariche di una delle tante metropoli di questo ingiusto mondo o nei cortei inneggianti a un diritto civile (a caso) calpestato.
Sono quei miliardi di unità che non studiano strategie per compiere stragi di civili e mozzare teste ai bambini, che non stuprano innocenti, che non torturano e uccidono in nome di una "razza eletta" (da chi poi) o di un "diritto divino", che non si mettono in marcia per crociate lontane né per "equilibri politici mondiali" imperscrutabili. I cantastorie del mondo hanno le bisacce traboccanti di questi racconti. Una lacrimuccia e via, subito di corsa a sostenere (occultamente) l'ennesima multinazionale che calpesta le prerogative individuali o a dar credito all'ennesimo imbonitore pazzo o guerrafondaio.
Non trascuro le premesse e le ragioni - qualora ve ne siano - alla base delle scelte e dei comportamenti belligeranti, né trascuro gli orrori che causano altri orrori, ma la guerra è il più grande fallimento dei vili e degli arrendevoli, figurarsi di "quelli di buona speranza".
Ma c'è un'altra grande vittima delle guerre di ogni ordine e grado e sono i soldati che loro malgrado le combattono. Escludo da questo sacro appello - è implicito - i sanfedisti e gli invasati per ogni fede politica o (peggio) religiosa - Francesco Guccini avrebbe a questo punto esclamato, "Libera nos Domine!" - mi limito a rubricare il sentimento accorato dei milioni di uomini, per la gran parte in fiore, che nelle tante assurde guerre dei "potenti" - a loro peraltro del tutto estranei o indifferenti - sono morti o vi hanno lasciato una parte non trascurabile dei loro corpi o delle loro anime. Scomodo a questo scopo il grande Fabrizio De André, che nella sua bellissima "La guerra di Piero" ci racconta l'assurdità di uno "scontro" tra due ragazzi, ignari delle ragioni di una "inimicizia" che li aveva messi l'uno di fronte all'altro, eppure tanto puerilmente e ottusamente ostili da arrecarsi la morte - univocamente e per mano del più codardo o del più fragile.
Quella canzone ancora risuona a testimonianza di questo (pare) irreparabile e vergognoso affronto per tutta l'umanità. E a seguire cito il veterano tedesco della prima guerra mondiale - "la grande guerra", come amiamo definirla, più per il numero di paesi coinvolti che per i 10 milioni di soldati senza volto che lì sono ingiustamente periti - quell'Erich Maria Remarque, reietto dal partito nazista e che perciò fuggì prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti, quello i cui libri furono bruciati nelle pubbliche piazze di un paese allora infuocato e cupo, ma non so quanto ancora oggi sinceramente ravveduto.
Nel suo autobiografico "Niente di nuovo sul fronte occidentale", il protagonista della tragica storia, Paul Baümer, diciottenne tedesco, attraversa tutte le fasi interiori di un ragazzo che si reca - invasato da ideali fasulli - al fronte e scopre che quell'avanposto miserabile dell'umanità è solo uno sversatoio di nefandezze e inganni. Più che riempire queste pagine di altre mille parole, vi riporto di seguito tre brandelli (è il caso di dirlo) di quel "punto di vista" diretto, autentico e crudo di cui il meraviglioso libro di Remarque è pieno, parleranno per mio conto e per tutti i silenzi e gli orrori di quella come di ogni altra guerra.
Il primo. “La guerra ci ha resi inetti a tutto. Non siamo più giovani, non aspiriamo più a prendere il mondo d’assalto. Siamo dei profughi, fuggiamo noi stessi, la nostra vita. Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro. La prima granata ci ha colpiti al cuore; esclusi ormai dall’attività, dal lavoro, dal progresso, non crediamo più a nulla. Crediamo alla guerra.”
Il secondo. “Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio: gli eventi ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.”
Il terzo e ultimo, quello che ne segna l'epilogo. "Egli cadde nell'ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: "Niente di nuovo sul fronte occidentale". Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un'espressione così serena, quasi fosse contento che la fine fosse giunta a quel modo." Chi architetta agguati e soprusi, chi sperimenta umiliazioni e assassini, chi si compiace di invasioni ed eserciti, chi abbandona fratellanze e buonsenso, rilegga queste grevi parole e si vergogni delle sue scelte e del male arrecato, innanzitutto ai suoi soldati e, di conseguenza, al suo popolo.