Napoli

Ho sempre amato scrivere, ma più per me stesso. Oddio che frase fatta! Intendo dire che mi sono occupato per lo più di respirare una poesia, aggrapparmi a un diario, liberare un racconto. Era come spalancare una finestra e lasciar volare un aquilone, niente a che vedere con un uccello che avrebbe potuto non tornare più indietro. Questo è invece diventato per me oggi riempire una pagina vuota. Una planata, un precipizio, un libero volo senza ritorno. Tutto è cominciato il 24 agosto del 2021, la data della mia prima pubblicazione. Quando si dice l'associazione non casuale del tempo: il giorno dell'anno in cui è morto Jorge Luis Borges, il mio poeta preferito. Ero da qualche parte del mondo con un amico fraterno, che guarda caso è anche un editore, e a furia di scambiarci parole intangibili mi sono ritrovato a trascriverle per un glorioso quotidiano napoletano.

Ricevuta l'approvazione e l'incoraggiamento (che non è mai mancato) del direttore di quel giornale, ho cominciato la mia avventura, per carità solo in qualità di pubblicista - faccio altro nella vita - che ha appena raggiunto la sua meta, quella dei due anni e dei 70 pezzi minimi pubblicati. Non so cosa accadrà in futuro, so però che questa piccola, giornaliera occupazione ha riempito - confesso quasi dal primo istante - la mia esistenza, rendendola ogni giorno migliore, più ricca, più viva, più attenta e più intensa. Sono diventato un cercatore di spunti, idee e notizie - credo sia questo un giornalista - provando sempre a renderle intelligibili, universali ed etiche. Ho scritto ovunque, al tavolo da lavoro tra un paziente e un altro, durante il giro visite, nella pausa caffè, a letto, in auto (quando non guidavo ovviamente), in treno, in aereo, al parco. Perfino a tavola. Ovunque. Come in trance. Rileggevo quello che avevo scritto e non mi sembrava neanche di esserne l'autore. Ho riempito talmente tante pagine in due anni da non ricordare neppure di cosa ho parlato. L'ho fatto con una bramosia e una naturalezza che non credevo di possedere. Invito quelli che sentono di averne le capacità a provare a fare altrettanto. Per me è stato come una catarsi, come se non aspettassi altro (nulla accade per caso), come rinascere con un altro cuore (l'ennesimo della mia vita). Sono diventato un trapiantato senza ferite o sala operatoria. Ho anche cercato di parlare a tutti parlando di me, non dimenticando cioè mai di mettere un pezzo di quello che penso, che provo e che sono in ogni argomento trattato. Qualcuno (non ricordo se in un libro, in un film o nella vita reale) ha detto che "tutto quello che facciamo o diciamo diventa in qualche modo personale". Ecco, ho provato a scrivere come se ciò che mi veniva dal mondo circostante, vicino o lontano che fosse, passasse attraverso di me e se ne impregnasse prima di andare al lettore. Non so se sia una cosa opportuna e se questo mi connoti come un buono o un cattivo giornalista, quello di cui sono certo però è che ho provato sempre a stare dalla parte di chi legge, di quell'universo di occhi, orecchie e mani che apre una pagina per spalancare (non barricare) le finestre del suo cuore. Non si può leggere - un libro, una poesia o un articolo - senza pensare, senza guardarsi dentro. Da qui nasce la sua magia. Pascal ha scritto: "Io posso benissimo concepire un uomo senza mani, senza piedi, senza testa (perché è solo l'esperienza che ci insegna che la testa è più necessaria che i piedi). Ma non posso concepire l'uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto." Col lettore io voglio parlare, voglio condividere le mie idee e le mie scoperte, sperare di accendere così una luce, una speranza nelle sua testa o nel suo cuore. Eduardo Galeano, il grande scrittore uruguaiano, ha aggiunto: " Mi piace la gente sentipensante, che non separa la ragione dal cuore. Che sente e pensa allo stesso tempo. Senza divorziare la testa dal corpo, né l'emozione dalla ragione". Questo dovrebbe essere il lettore ideale per il giornalista ideale. Ma non basta desiderarlo, occorre costruire nella vita quotidiana questo fertile sodalizio. E per farlo è necessario scrivere senza oltrepassare la verità (non ne esiste infatti una sola), ma accompagnandola, offrirla a chi legge gentilmente nell'alveo delle sue molte possibilità. Nulla è apodittico nel giornalismo, la realtà muta e ha sempre mille sfaccettature. Nasconderne od oscurare alcune porta chi annota una riflessione o un pensiero a mettersi dalla parte dell'ignoranza e del sopruso. Non v'è il vincolo del "pensiero unico" per chi racconta la vita. Il giornalista è un trasformista (nell'accezione positiva del termine, ovviamente), parafrasando Victor Hugo, deve saper essere "come un albero", "cambiare le foglie ma conservare le radici", cioè deve essere in grado di "cambiare le idee" ma "conservare i suoi principi". Non solo. Non si può concepire un lettore senza voce. Il giornalista deve essere la cassa di risonanza di chi legge, non può non rappresentare anche le sue ragioni quando racconta un fatto o esprime un parere. Il mondo è pieno di gente che si uniforma al potente di turno, chi scrive deve farlo avendo la sua opinione, ma difendendo e rappresentando, anche e direi soprattutto, quelle degli esclusi. “La stampa deve essere al servizio dei governati, non dei governatori” - dalla Suprema Corte: il New York Times contro gli Stati Uniti 403 U.S. 713 estratto dalla sentenza del giudice Hugo Black. Non smetterò mai di ricordare quanto lì enunciato, stella polare allora come ora del buon giornalismo. Ma la libertà di stampa richiede (oltre la voglia e la capacità di scrivere) anche artificio e disapparenza, strumenti della "verosimiglianza" e della "probabilità", parti a loro volta pregnanti di ogni argomentazione retorica secondo Aristotele. "La libertà di stampa è necessaria soltanto ai giornalisti che non sanno scrivere", ha felicemente concluso Elio Longanesi. Ho provato a fare lo stesso, e ancora di più, perfino quando ho parlato di malattie, salute e sanità: da medico, ma anche, e forse anche di più, da paziente (cosa che peraltro sono stato e sono), autoproclamandomi perciò libero di diritto. Perché alla fine per me il giornalista è un portatore di verità, un terapeuta, che cura le asimmetrie della realtà e, mostrandone l'ingiustizia, l'orrore, la fatuità o l'infondatezza, prova a costruire un mondo migliore. Non so se sia sempre così e nemmeno se con altrettanta continuità, e aggiungo onestà, chi scrive per un giornale ci provi, ma auguro comunque a me stesso che questo sia quello che da domani - ancora e più di ieri - mi aspetta.