Sarah Yahr Tucker, una giovane scrittrice e giornalista californiana molto vicina da sempre ai problemi del vasto, articolato e, ancora in parte, sommerso mondo della salute femminile, qualche giorno fa ha pubblicato un articolo su un portale medico a diffusione planetaria dal titolo pregnante ed evocativo: "I medici con malattie croniche vivono in un mondo medico diverso", in cui ha presentato alcune storie di malattia - tutte coniugate al femminile - di sanitari nordamericani.
L'articolo in realtà, indipendentemente dalla prospettiva di genere proposta, affronta un aspetto spesso omesso dalle cronache quotidiane della professione medica. Cosa prova il medico quando si ammala? In quale mondo finisce col vivere? Cosa accade alla realtà sanitaria che gestisce, piccola o grande che sia? Come cambia il suo lavoro e la sua vita da questa nuova prospettiva? Il bel pezzo giornalistico ci dice innanzitutto che nonostante "i dati del National Health Interview Survey del 2018 ci mostrino che più della metà degli adulti statunitensi hanno almeno una delle numerose condizioni croniche presenti nella popolazione generale, tra cui artrite reumatoide, asma, diabete, ipertensione e problemi renali, e quasi un terzo degli intervistati presenta poi più di una condizione morbosa, meno del 5% degli studenti di medicina e solo il 3% dei medici dichiarano di avere una malattia cronica o una disabilità,".
"Sebbene ciò possa significare" - afferma l'autrice dell'articolo - "che un minor numero di persone con malattie croniche acceda alla medicina, esistono anche casi in cui aspiranti medici con patologie sono stati dissuasi dal perseguire una carriera in questo ambito professionale". In realtà il dato epidemiologico resta comunque manifestamente errato, in quanto frutto di quella che la Turker chiama la "cultura dell'invincibilità", quel complesso di manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale, ben noto a tutti coloro che svolgono la mia professione, che ne condiziona spesso scelte, disponibilità e comportamenti, al solo scopo di dare di sé una immagine parziale, purché rassicurante, per tutti quei pazienti che nel proprio medico cercano più di tutto un porto sicuro alle loro paure e alle loro insicurezze. "I medici non dovrebbero ammalarsi" - continua la giornalista. E conclude - "In effetti, la regola non scritta è il presenzialismo: funzionare senza cibo o sonno adeguati e non dare mai la priorità alla cura di sé rispetto alla dedizione ai propri pazienti.". È questo il vero nodo della questione.
Il buon medico nell'anteporre la presa in carico delle affezioni dei suoi ammalati trascura o misconosce spesso le proprie, indipendentemente dalla sua valenza professionale. E quando si ammala, lo fa due volte, anzi tre: del morbo da cui è stato inopinatamente colpito e del doppio senso di colpa per non averlo scoperto in tempo e per aver lasciati soli i suoi assistiti. L'aneddotica scientifica e divulgativa è piena di racconti di medici che confessano - come nell'articolo della Tucker - più o meno accoratamente la propria condizione di malati, cronici o acuti che siano, benigne o maligne che risultino le loro infermità, compresi o incompresi dai propri colleghi che finiscano con l'essere (e l'articolo della Tucker pone l'accento proprio su questo scabroso aspetto).
Quando per esperienza famigliare o personale mi sono trovato a entrare direttamente in contatto con questo particolare stato di sofferenza ed emarginazione ho capito due cose.
La prima. Che è molto diverso quando si sta seduti dall'altro lato della scrivania e da esaminatori si diventa esaminati. Ci si identifica nei fatti con i bisogni (fino ad allora spesso misconosciuti o ignorati) dei propri pazienti e con le loro piccole o grandi fragilità, ma soprattutto si impara a "vedere" la reale (e purtroppo sempre più rara) capacità dei medici di coniugare competenza a umanità. Solo così (ahimè) temo si compia quel salto di qualità che permette al medico di oltrepassare il mero e freddo ragionamento clinico per giungere ai paritari e benefici sentieri della "compassione".
La seconda. Non potete immaginare quante volte avrei desiderato rivelare chi ero - seguo la regola paterna di ometterlo - e rispondere a brutto muso di fronte ai comportamenti inaccetabili di colleghi supponenti e perciò ancora più fallaci, ma anche quante altre ho benedetto le mie malattie - da quelle psichiche a quelle organiche - e i buoni medici per avermi insegnato a capire appieno chi mi onoro di assistere e curare. Non solo.
Passare attraverso la sofferenza personale e quel labirinto di attese, speranze, sconfitte, paure (per chi sa è molto peggio), disillusioni ed emozioni che sono le malattie, per un medico significa arricchire sé stesso e tutti coloro che a vario titolo incontra lungo il suo percorso professionale e umano. È questo un bene incommensurabile, che travalica il lavoro e finisce con l'abbellire e intenerire ogni più recondito aspetto della nostra vita.
Ma c'è un rovescio della medaglia e lo sperimentiamo ogni volta in cui qualcuno di noi si ferma, per poco o talvolta per sempre. Al di là del vuoto legislativo e della esiguità di tutele economiche assicurate al medico che si ammala, resta il vulnus di una platea di orfani che indugia o girovaga senza punti di riferimento, priva com'è di quel bagaglio di condivisioni e umanità che rende il percorso di malattia più breve e il modo per affrontarlo più sopportabile. È a quella vasta e multiforme popolazione di compagni di viaggio a cui spesso pensiamo quando una inabilità, più o meno temporanea, ci impedisce di rispettare il "giuramento inalienabile" - meno formale di quanto si creda - ben sapendo che lasciamo molti di loro in mezzo al guado di una quotidianità sempre più succube dell'impersonalità e della solitudine. Che per un medico, alla fine dei conti, è il peggiore di tutti i mali.
Neurologo - responsabile Sanità Confindustria Benevento