La memoria è lo zaino che ci viene dato all'uscita di quel mondo subacqueo e muto in cui viviamo prima di nascere. Per la verità anche di quel tempo di sguazzi ancestrali e sirene restano tracce, più indelebili e profonde di quanto si immagini. Lo zaino è pieno di ogni bendidio, lo riempiamo noi, anche nostro malgrado - come accade nei ricordi spiacevoli e traumatici - per costruire sia le fondamenta di quel che siamo che l'arredo delle stanze intellettive ed emozionali che ci compongono. Nulla è lasciato al caso. Ogni tessera del mosaico aggiunta ci completerà, in meglio o in peggio che sia; ciascuna sottratta, per necessità - anche quello facciamo e a volte ci salva la vita - o per malattia, farà altrettanto. Secondo qualcuno dal pensiero elevato, come un filosofo greco di tanti anni fa, non tutto sarebbe però farina del nostro sacco, ma una parte, se non addirittura il più, verrebbe da lontano, da molto lontano. Platone pensava, infatti, che "quello che l’uomo conosce non lo apprende ex-novo, perché conoscere è ricordare. Apprendere per l’uomo significa recuperare ciò che ha già conosciuto e che aveva dimenticato". C
osì nei suoi Dialoghi - "Socrate, con opportune domande, fa ricordare allo schiavo le sue innate conoscenze di geometria". Secondo Platone, "tutto ciò che sappiamo è qualcosa che la nostra anima ha appreso prima di incarnarsi in un corpo mortale; l’anima infatti ha osservato per più o meno tempo l’Iperuranio, un mondo in cui si trovano le Idee di tutte le cose, immutabili, e perfette. Quando l’anima si ritrova poi nel corpo si “dimentica” delle Idee viste nell’Iperuranio, ma senza perderne completamente il ricordo".
Molto diversa questa dalla concezione di Aristotele che "distingue tra memoria e reminiscenza. Nel primo caso i ricordi tornano alla mente in modo spontaneo, nel secondo caso la ricerca è consapevole, un processo che scava tra i ricordi per creare legami e dare senso a ciò che viviamo nel presente". Un po' quel pensiero che è alla base di gran parte della magistrale e possente poetica di Jorge Luis Borges, secondo cui "conosciamo ciò che riconosciamo" in uno scambio onirico e inconsulto di "reminiscenze di spade" e "smarrimenti affettivi".
Che avvenga per rievocazione o per apposizione, la memoria resta la nostra pietra miliare, senza non abbiamo più l'unità di misura dei nostri passi, senza perdiamo il metro dei nostri giudizi e delle nostre storie. Un uomo senza memoria è un guscio vuoto, una lumaca senza la sua casa - la sua amata conchiglia - visibile o meno che sia. È nudo e indifeso in una realtà che vorrebbe proteggerlo o abbandonarlo. Nessuna malattia più dell'Alzheimer, come di tutta la costellazione delle patologie degenerative cerebrali a essa correlate, ci spoglia con tanta ignominia della nostra dignità da sani.
Sì perchè, non è necessario (ed è frequente che non accada) che un cervello diventi atrofico in un corpo malato. Lo dice uno che ha visto morire lentamente di questo terribile morbo una madre, altrimenti priva di affezioni degne di nota, senza poterle opporre nulla di più del suo amore e del suo (modesto) accudimento. Potrei parlarvi di proteine abnormemente (e misteriosamente) accumulate in un cervello fino ad allora apparentemente normofunzionante e privo di qualunque presagio biologico di malattia. Potrei dirvi di come le cellule di quel cervello rimangano invischiate in quella melassa proteica amorfa fino a morirne. Potrei dirvi che come non esistono marcatori di malattia prima, così non abbiamo terapie per rallentare, bloccare o revertire l'inesorabile depauperamento neuronale poi. Potrei aggiungere che la prevenzione passa per la salute fisica generale (la cosa è ormai certa), ma che anche questa non è la chiave magica per aprire la cassaforte del mistero che avvolge questa malattia.
Come il fatto che le nuove terapie, quegli anticorpi monoclonali buoni ormai per tutte le bisogna, per quanto alcuni già commercializzati, hanno dato risultati finora non del tutto soddisfacenti, quando non riservavano addirittura effetti collaterali che qualche dubbio di opportunità al loro uso ancora ci lasciano. Dall'altra parte della barricata di chi cura e pontifica restano così i pazienti con i loro caregivers (per lo più familiari rassegnati), una moltitudine crescente e smarrita, a domandarsi dove e quando si è perso quel filo di Arianna che ci teneva tutti uniti e che ci ricordava di uno zaino datoci da riempire agli albori della nostra consapevolezza e inopinatamente (e nostro malgrado) svuotatoci quando avremmo potuto ancora farne buon uso.
A Giulia e al suo cuore in tumulto.