Tra le poche cose che non tollera un medico che ha amore e rispetto per la sua professione è rimanere senza un'ipotesi diagnostica valida di fronte a un paziente che sta visitando. In realtà, secondo il metodo deduttivo proposto, alla stregua di quello sperimentale, dal grande clinico medico bolognese tra la fine dell'800 e gli inizi del '900, Augusto Murri, sarebbe auspicabile che le ipotesi formulate per ciascun paziente fossero nel maggior numero possibile, anche allo scopo di amplificare la fantasia e rendere la loro confutazione un esercizio utile e avvincente. È anche di questo che si è parlato in un convegno tenutosi a Sarnico (BG) in questo fine settimana.
Il tema intorno a cui ruotavano queste e altre riflessioni era quello complesso, articolato e iperclassificato delle cefalee, molto caro al sottoscritto e la cui conoscenza e il cui approfondimento sono sempre più necessari a una moltitudine crescente di pazienti, spesso misconosciuti o abbandonati a loro stessi.
L'evento scientifico lombardo faceva da viatico alla "Giornata del Mal di Testa" che si terrà su tutto il territorio nazionale il 27 maggio e che vedrà operatori sanitari esperti mettersi a disposizione dei pazienti per creare occasioni comuni di ascolto e confronto e accendere così una luce, si spera abbagliante e duratura, ma soprattutto ininterrotta, su un problema sanitario vasto come pochi ma anche come pochi (e incomprensibilmente) mal attenzionato e, di conseguenza, mal curato.
Ricordo ancora un censimento che facemmo un po' di anni fa tra i medici di famiglia campani per capire quanti emicranici - solo una delle forme più diffuse di cefalea primaria e neanche la più frequente - stimavano di avere nella loro popolazione di pazienti. Ora, sapendo che la prevalenza di questa forma di dolore vasomotorio del cranio è stimata per quel campione essere di circa il 15% e riconoscendo a ciascun intervistato un numero medio di assistiti di 1500, ci aspettavamo che la risposta dei dottori della medicina di base fosse non inferiore alle 200 unità. E invece, con nostra grande sorpresa, la sentenza emessa nella maggior parte dei casi fu un numero inferiore a 10. Tutto il resto dei pazienti, che certo lamentavano questo disturbo, ma - era ormai certo - silenziosamente, che fine facevano? Chi li diagnosticava? Chi li curava? E con quali risultati? Nulla, il buio totale. Dietro quale paravento invisibile consumavano la loro pena inascoltata?
Scriveva Lucio Anneo Seneca: "Lieve è il dolore che parla, il grande dolore è muto". Molti di quei malati non giungevano, e quel che è peggio non giungono ancora, alla valutazione clinica diretta di un medico, esperto o meno che sia. Altra cosa è riuscire a dire da quale forma di cefalea, tra le 100 e più a oggi classificate a livello mondiale, quei pazienti sono affetti. Affermazioni tuttora imperanti del tipo, "è un banale mal di testa, che vuoi che sia, prendi un antidolorifico e via!", non aiutano comunque a far luce sul problema e men che meno a prevenire complicanze, abusi farmacologici e cronicizzazioni. Resta una realtà sommersa ancora tutta da comprendere e gestire. Per fortuna che da qualche anno, grazie alle nuove (e costosissime) terapie che agiscono su quella molecola ritenuta da tutti l'effettrice primaria del mal di testa, il CGRP, si è potuto approcciare in modo finalmente nuovo il problema, prevenendo così evoluzioni tanto penose da risultare talora anche fatali.
Resta il fatto che a causa degli alti costi (come detto) i pazienti trattati con questi straordinari farmaci siano in Italia solo una minima parte (circa 20.000) rispetto al milione di quelli potenzialmente eleggibili per quel trattamento.
Ma tornando al problema della diagnosi, spesso assente, del tipo di cefalea che colpisce un po' alla volta o bruscamente, da tempo o solo da poco, un paziente, non si può non rilevare che ovemai egli giunga al cospetto di un medico non è infrequente che la diagnosi tipologica non venga effettuata o addirittura sia errata. Ciò in parte per la complessità del problema, in parte per la grande variabilità intra e interindividuale delle crisi e della loro conseguente risposta ai farmaci (e non solo), in parte per la scarsa conoscenza dei meccanismi etiopatogenetici che le sottendono e in parte, infine, per la mancanza di una gestione istituzionale e sociale - più affidata alla (comunque) insoddisfacente iniziativa "privata" - che finisce col lasciare sul campo una marea di costi diretti (di gestione della malattia) indiretti (da perdita di ore di lavoro) e una popolazione sempre più sofferente, povera e sola. E questo nonostante siamo il paese col maggior numero di centri cefalea al mondo per numero di abitanti, ma al cui (talvolta inutile) approdo possono occorrere anche anni di attesa.
Ma perché continuiamo a non riuscire a gestire in modo efficiente e corretto un problema così vasto e penoso? La crescita ancora troppo lenta di una classe medica dirigenziale competente e la mancanza di percorsi formativi condivisi validati a livello ministeriale sono alcuni tra gli ostacoli posti al capilare ed efficiente governo della cefalea oggi in Italia. Non aiuta neanche un sistema classificativo internazionale che bada più alla malattia che al malato, tanto da rendere spesso impossibile la gestione completa e appagante di chi soffre, quantomeno in mani non esperte.
Si riparta dal medico, puntando finalmente tutto sulla qualità del suo percorso formativo - e non su assegnazioni calate dall'alto di ruoli e competenze - e gli si lasci lo spazio, anche temporale, di coltivare quell'empatia e quella umiltà (a chi ne è capace) che non possono, ripeto non possono, essergli estranee. Il resto lo faccia lo Stato (se ne è in grado), ma faccia presto. Il tempo corre e anche gli ultimi eventi pandemici ci hanno consegnato una nuova marea montante di pazienti cefalalgici senza bussola che cercano risposte diagnostiche e terapeutiche esaustive, ma soprattutto altro e improrogabile ascolto, altra e improrogabile comprensione.
*Neurologo - responsabile sezione Sanità Confindustria Benevento