Quei sogni in cui si vuol dire qualcosa ma la bocca si rifiuta, quelli in cui si ha un telefono in mano ma le dita non riescono a comporre il numero giusto: ecco, è esattamente quello che prova chi scrive, nel dover digitare su una tastiera la frase “Il Napoli è Campione d'Italia”.
In trentatré anni ci passa un bambino, a spasso col papà in una 127 rossa e un po' scassata sventolando felice una bandiera, senza pensieri, senza sovrastrutture. Un ragazzino, che in barba a una squadra senza possibilità alcuna di titolo la sogna campione per liberarsi degli sfottò del lunedì a scuola. Un adolescente curvaiolo che trova conforto nei rituali, quelli veri, quelli belli, del tifare insieme, della comunità, del coro e dello sfottò. E poi un adulto, un papà che trasmette la passione alla figlia, un giornalista che sogna di scrivere e raccontare quel giorno che tra beffe e perfidie non arriva mai...come il numero che devi digitare per salvarti nei sogni, come l'urlo che ti si strozza in gola.
Non è (solo) la festa di piazza, non è (solo) l'esplosione di gioia di una città, di un popolo e di chi condivide l'amore viscerale per una maglia, per una storia, per uno stemma: è (prima di tutto), una dimensione intima, molto intima di quei 33 anni che separano uno Scudetto dall'altro. Altro che “e' solo un gioco”: ci sono dentro cicatrici, storie, racconti...vita pulsante.
C'è dentro la squalifica di Maradona e il bambino che non sa neppure cosa sia il doping, figuriamoci la cocaina, c'è dentro la prima volta che si va allo stadio, naturalmente contro la Juve e naturalmente si perde, 3 a 2, con loro in vantaggio per 3 a 0 e tu affascinato quando alla rimonta quasi compiuta da Fonseca e Zola lo stadio canta o'surdat nnammurat. C'è Pacileo che inizi a leggere sui giornali, e le cronache sportive che diventano sempre più cronache finanziarie tra messe in mora, debiti e fidejussioni, e senza internet devi rompere le scatole ai grandi per farti spiegare.
C'è Benny Carbone e Vujadin Boskov, c'è Taglialatela che piange in campo e tu appresso a casa per la retrocessione in Serie B. Il San Paolo pieno di 80mila persone a tifare Dionigi, Vidigal e Pasino perché non retrocedano in C sul campo. C'è il fallimento, c'è Gaucci in piazza con una maglia creata per l'occasione che chi scrive ha e custodisce gelosamente: ci si aggrappava un po' a tutto.
C'è la dannazione e l'indignazione di quella schifezza ignobile che si vide in giro per l'Italia, e in particolare a Milano quando tutte le parole di sopra avrebbero dovuto essere pubblicate: con cinque anni d'anticipo. C'è, a prescindere dalla fede religiosa, l'eterna domanda: “Ma perché non sono nato cinque o sei anni prima?”, una domanda che peraltro chi è nato il 30 giugno del 1984, mentre una busta vuota decretava l'acquisto di Diego Armando Maradona, non dovrebbe mai fare.
E dunque Kvaratskhelia, Spalletti, Osimhen ma anche Starace col suo caffè e il giardiniere del Maradona e Maradona stesso da dov'è, che figuriamoci se l'Argentina campione del Mondo e il Napoli d'Italia a distanza di cinque mesi sono un caso (sempre a prescindere dalla fede religiosa): non sono solo gli artefici di un trionfo sportivo che capirai...sono i depositari di qualcosa di intimo e profondo, di freudiano volendo. Sono quelli che hanno risolto l'equazione impossibile, che hanno dato le parole a quell'urlo che non usciva...sono quelli che hanno permesso di scrivere, finalmente...IL NAPOLI E' CAMPIONE D'ITALIA.
Ora sì, si può scrivere: IL NAPOLI E' CAMPIONE D'ITALIA
Un percorso intimo di 33 anni: tra dannazione, fede e speranza
Cristiano Vella