Napoli

Ritornando al tema della salute e al miglior modo per preservarla, affrontato solo qualche settimana fa in un'ottica però strettamente legata al punto di vista alimentare, cito un intervento pubblico di Joann Manson, professoressa di Medicina alla Harvard Medical School e al Brigham and Women's Hospital di Boston in merito a un recente articolo scientifico sulla metrica Life's Essential 8 (LE8) dell'American Heart Association (AHA) e sulla sua associazione con l'aspettativa di vita libera dalle più rilevanti - in termini di durata e qualità della vita - malattie croniche come quelle cardiovascolari, il cancro, il diabete e la demenza. Lo studio, appena pubblicato su Jama Internal Medicine ha sfruttato la biobanca del Regno Unito - ormai diventata una fonte inesauribile di informazioni vitali per il progresso medico di tutto il mondo - e ha incluso più di 135.000 adulti di quello stato con un'età media di 55 anni.

La metrica AHA è stata definita includendo i seguenti otto fattori comportamentali virtuosi (i suddetti LE8, appunto) alla base, secondo la più importante società scientifica cardiologica al mondo, di uno stile di vita sano: non fumare; attività fisica regolare; peso ottimale; dieta sana; sonno adeguato (definito come una media di 7-9 ore per notte); pressione sanguigna in un intervallo normale; glicemia entro un valore giusto; colesterolo non HDL in un range di normalità.

La metrica AHA, che può essere considerata così a tutti gli effetti un vero e proprio marker di salute cardiovascolare della popolazione generale, la cardiovascular health (CVH) di scuola anglosassone, ha permesso di suddividere il campione in esame in tre gruppi: quelli con punteggi bassi, moderati o alti di CVH, a seconda che soddisfacevano meno di 3, da 3 a 6 o più di 6 dei requisiti di salute previsti dai LE8. L'importanza dello studio risiedeva nel fatto che a fronte di un'aspettativa di vita media aumentata notevolmente negli ultimi decenni nella maggior parte dei paesi industrializzati, non tutto questo guadagno temporale viene trascorso in condizioni di salute ottimali, specialmente tra gli individui con uno stato socioeconomico più basso.

I risultati della ricerca dicevano che all'età di 50 anni, gli anni liberi da malattie croniche stimati erano 21,5, 25,5 e 28,4  per gli uomini con livelli di CVH bassi, moderati e alti, rispettivamente, mentre i corrispondenti anni liberi da malattia stimati all'età di 50 anni per le donne erano 24,2, 30,5 e 33,6. Parimenti, gli uomini con livelli di CVH moderati o alti vivevano in media 4,0 o 6,9 anni in più senza malattie croniche, rispettivamente, all'età di 50 anni, rispetto agli uomini con bassi livelli di CVH.

I corrispondenti anni più lunghi vissuti liberi da malattia per le donne erano 6,3. Per la prima volta si affrontava in modo rigoroso il problema - più volte sollevato, anche dal sottoscritto, su queste pagine in epoca covid - che è necessario rivedere il pianeta salute non più coi meri (e ingannevoli) metri della durata di vita tout court, bensì con quelli del benessere pieno e soddisfacente dell'individuo, visto come unità sociale e affettiva senza vincoli e subordinazioni (e men che meno costi).

Sapere cosa ci può ampliare l'arco temporale di libertà dalle malattie croniche più odiose, invalidanti o fatali (e non di giorni, ma di anni, molti anni pure) non solo costituirebbe, infatti, un improrogabile insegnamento per chi vive, spesso inconsapevolmente, questa folle corsa verso una società senza figli e, quindi, senza prestatori d'opera a supporto di invalidità patologiche crescenti  ma  dovrebbe rappresentare un - ci si augura - non inascoltato campanello d'allarme per tutti coloro che immaginano e realizzano strategie future di salute pubblica.

Avere un "paese per vecchi", da mantenere economicamente e assistere con risorse umane che non abbiamo, ci costringerà prima o poi a fare scelte sul welfare che temo saranno dolorose per molti se non per tutti. Procrastinare il tempo di quegli interventi può cambiare anche profondamente gli equilibri economico-finanziari di una nazione, che proprio nella sanità ha la sua spesa più rilevante. Ma lo studio inglese dà a tutti noi anche un'altra e più rilevante lezione che sarebbe meglio non dimenticare. Per i partecipanti con alto livello di CVH, non c'era una differenza statisticamente significativa nell'aspettativa di vita libera da malattia tra quelli con basso e quelli con alto stato socioeconomico.

Per dirla con Joan Manson: "Abbiamo molte disparità nell'aspettativa di vita e nella durata della salute tra paesi industrializzati e all'interno di questi ultimi tra classi, razze ed etnie differenti. Quindi sarà molto importante per la salute della popolazione ridurre queste disparità attraverso l'educazione sull'importanza dei fattori dello stile di vita, ulteriori ricerche sull'implementazione di fattori e comportamenti dello stile di vita e politiche pubbliche per rendere uno stile di vita sano accessibile a tutte le persone di tutti i gruppi socioeconomici del mondo".

Quello che nei secoli intere  generazioni di straordinari uomini e donne non sono riusciti a realizzare - la vera e indiscutibile parità sociale tra chi ha più mezzi economici e chi ne ha meno - potrà essere attuata semplicemente educando tutti, ma proprio tutti (a partire dai più piccoli), ad avere maggior cura di sé stessi? Mi auguro con tutto il cuore di sì.

*Neurologo - responsabile sezione Sanità Confindustria Benevento