Insomma è un’altra volta estate, anzi è quasi finita, maledizione, e io assaporo gli ultimi giorni di queste due settimane di Arcadia irpina, o di Sparta irpina, non so, Roberto Bolaño scrisse che lui non era per il motto Et in Arcadia ego, preferiva Et in Sparta ego, e io pure temo di essere del secondo genere (temo che questo sarà un pezzo di digressioni e dicotomie, perché? Perché ho ricominciato, dopo due anni, a rileggere Bolaño, Puttane assassine, per la precisione, e a me il cileno apolide mi fa quest’effetto, m’induce a partire per la tangente), insomma in questi ultimi giorni d’estate irpina m’invitano a recitare delle poesie a piacere allo Sponz fest, il festival del cantautore nonché ormai demone irpino, Vinicio Capossela.
Raggiungo il Formicoso di Andretta, vedo laggiù, al bivio tra Vallata e Bisaccia, la casa cantoniera dove ho ambientato la base di Crocco, l’altro personaggio, insieme a Cafiero, del mio romanzo irpino, al momento ancora inedito, ma che comunque è già il più grande romanzo irpino di sempre, fidatevi.
Lì, in un setting lievemente metafisico, tra una trebbiatrice volante a pedali e trebbiatori a mano riesumati per l’occasione, i canti contadini di Enza Pagliara che ha lasciato la patinata e lisergica notte della taranta salentina (ecco, penso che Capossela stia a questo pezzo ossuto d’Irpina detto altirpinia come Ernesto de Martino sia stato al Salento, entrambi hanno preso un popolo che ignorava di essere peculiare, forse unico, e gli ha fatto alzare la testa) e la chitarra ossessiva e ridondante e ipnotica di quel personaggio irripetibile che è Antonio Infantino (uno dei padri musicali di Capossela, scommettiamo? Quello che gli ha imparato la visionarietà dello sciamano musico lucano), c’è stato lo spazio per recitare alcune poesie di poeti meridionali: Scotellaro, Stiso, Rea. Io, siccome ho avuto carta bianca, ho inserito, in questo panteon poetico del sudditalia, nientemeno che Antonio Gizzo. Voi direte e mò chi è Antonio Gizzo.
L’Irpinia è terra di poeti, ho esordito. Ogni paese ha almeno quattro poeti professionisti, senza contare i non professionisti. Ovviamente, come dappertutto, quasi tutti si pagano la pubblicazione dei loro libretti. Che ci vuoi fare. E’ così per la poesia. Tutti scrivono, nessuno legge. Modificando una poesia del poeta cileno Nicanor Parra, citato da Bolaño in Tra parentesi (libro di interviste e altri suoi scritti che vale quanto e forse più di alcuni suoi romanzi meno riusciti, penso ad Anversa, illeggibile, troppo joycesiano), poesia che fa così: i quattro grandi poeti del Cile sono tre: Alonso de Ercilla e Rubén Darìo, io ho incominciato con: i tre grandi poeti d’Irpinia sono due: uno è morto e l’altro è un anarchico. Ora, ma questo non l’ho detto, io non lo so chi è quello morto, forse morti sono tutti gli altri, ma di certo so chi è il vivo, vivo perché anarchico, o anarchico perché vivo: egli è Antonio Gizzo da Guardia dei Lombardi, paese alto 999 metri sul mare, e 999 è proprio il rovescio di 666, e ognuno interpreti secondo le proprie credenze, paese che per caso è pure il mio paese avito. Perché, ho proseguito, immaginando che il pubblico, dopo le poesie fin lì recitate, si stesse stupendo di questa mia mini lectio magistralis da tre soldi, perché mai Antonio Gizzo dovrebbe essere il più grande poeta irpino? Ve lo dico subito.
Due secondo me sono le categorie di poeti. Quelli che iniziano una carriera poetica, e scrivono tanto, e diventano poeti riconosciuti, e vengono chiamati il poeta, e loro stessi, quando si presentano, dicono salve, io sono il poeta, e iniziano a pensare e credere e far credere che tutto ciò che dicono o pensano o scrivono abbia più spessore o salienza solo perché pensato e pronunciato e scoreggiato dal poeta. Ebbene questi, a un certo punto, forse sin dall’inizio della carriera poetica, ma di sicuro a un certo punto, smettono di vivere da poeti e iniziano a condurre la tetra esistenza di impiegati del foglio, un tot al giorno, chi quattro chi otto chi sedici fogli, e così via.
Questa categoria, come avrete capito, non m’interessa. Sono quelli morti, insomma. M’interessa la categoria dei vivi, degli anarchici, di quelli che, all’inizio, hanno scritto qualche poesia, perfino pubblicato dei volumi, dico al massimo uno o due, già tre è troppo, meglio ancora se non hanno pubblicato mai niente, questa sarebbe la perfezione, come i visceralisti, o infrarealisti, adesso non mi ricordo di preciso come si chiamavano i poeti messicani narrati, sempre da Bolaño, nei Detective selvaggi, scrivevano niente, perché poetica era la loro vita da poeti e ciò era più che sufficiente. Chiaro che a questa seconda categoria appartiene a pieno titolo il Gizzo, ha pubblicato un volume verso la fine degli anni 70 per un editore anarchico di Casal Velino (Galzerano Editore), Un’altra solitudine, poi un pamphlet autoprodotto e stampato in proprio contro un sindaco nell’epoca post terremoto dell’80, infine un malriuscito libro di versi verso la fine degli anni 90. Poi basta. Il nulla. Anzi no. C’è un’intervista video rilasciata al sottoscritto tre o quattro anni fa, che sarebbe dovuta diventare un documentario postumo su di lui, se non ché io non ho trovato il tempo di montarlo e lui non si decide a morire. Ma è in questa preziosissima intervista video, di cui io sono l’unico detentore, che il vate d’Irpinia ha formulato la migliore definizione di poeta mai udita in quattromila anni di poesia.
Gizzo, Chi è un poeta? Poeta è chi non cala la testa.
Ecco che questa è una definizione che non lascia scampo, che è un vero e proprio rasoio di Occam, che taglia le gambe al 99,9% dei poeti. Di sicuro ai poeti irpini, che al 99,9% sono democristiani, di nascita oppure acquisiti, e come tali, per definizione, poeti che hanno senz’altro calato la testa, e talvolta pure le braghe.
Ed è questo, seppur senza tutti questi incisi e digressioni, che ho sinteticamente sproloquiato al popolo del Formicoso, ringalluzzito dal demone musico Capossela, e bendisposto perfino a sentir parlare di poesia invece che di pallone, ho detto che per essere poeti non bisogna calare la testa. Ma questo, scusate se insisto, ho aggiunto, vale non solo per chi vuol essere poeta, vale per chi, come me, s’è ingaggiato nella sciagurata missione di fare lo psichiatra (il curatore d’anime in pena, si pensi un po’): psichiatra è chi non cala la testa (alle case farmaceutiche, ai poteri forti o deboli di direttori, alle consuetudini, al fascino discreto ed eterno del manicomio, al manicomio che tutti abbiamo conficcato dentro la scatola cranica); scrittore è chi non cala la testa (ai lettori, ai giornali, agli editori, agli editor, ai gusti della gente); ma, in generale, per rimanere un essere umano decente tout court devi cercare di non calare la testa.
Questo ho detto. E dopo averlo detto, siccome ero lì per leggere poesie, ho letto due poesie, una rassegnata e melaconica, l’altra esaltata e rivoltosa, del poeta Gizzo ovviamente, il poeta afasico, il poeta vivo, il poeta anarchico, l’unico poeta vivo in questa terra di poeti morti.
Ecco la seconda poesia che ho letto, la poesia insurrezionale:
Questo fu un paese di sopravvissuti,
e la croce che li schiaccio si tramandò negli anni,
di padre in figlio. Fin quando un giorno,
mani callose solcate di sangue,
strappata con rabbia la croce,
vi piantarono al suo posto un drappo nero
con su scritto: né dio né padrone.
Bella eh? E’ o non è, l’autore di questa poesia, il più grande poeta della terra irpina? A che serve leggere libri su libri dei troppi poeti a capo chino, quando basta questa, sola, definitiva poesia?
Piero Cipriano