Gerardo Casucci*
So con certezza di aver avuto un tempo di passione politica. Ricordo ogni cosa di quell'epoca accalorata e palpitante. Non proprio o non solo (ahimè) dalla prospettiva frastornata e bellicosa della strada, piuttosto da quella trasposta e sognante della protesta casalinga e politicamente corretta dei salotti borghesi.
Erano, infatti, giorni di innocenti certezze e appartenenze concettuali più che sociali - lo riconosco - che tuttavia mi sono valse durature amicizie e buone letture. E una voglia (tuttora) persistente e insana di uscire dal recinto, di confondermi e confrontarmi, di esprimere un'opinione - chissà che non sia abbastanza intelligente o pertinente da arricchire il ragionamento e il cammino di qualche compagno di viaggio a caso - o di colorare ancora il mio prato dei fiori ("du bien") altrui.
Quella stagione, mai morta come ho detto, ha confermato la mia avversione tanto per le tesi urlate quanto per le riflessioni (ammantate di dibattiti) oziose ed estenuanti, di cui pare l'impegno politico non riesca a fare a meno. Non so con quale costrutto poi.
Ho seguito così l'avvicendarsi di questo o di quel politico, di questa o di quella nuova classe dirigente, di questa o di quella rivoluzionaria arte di governo, con sguardo sempre più disilluso e rassegnato. Una colpa? Avrei dovuto insistere nella battaglia a difesa delle mie idee di giustizia ed equità? No, ero impegnato a fare altro, come quasi tutti noi cittadini e potenziali elettori. Studiare, vivere, lavorare, produrre ricchezza e, soprattutto, tasse, per mantenere quel circo equestre - termine abusato, ma come non chiamarlo così, tra prestigiatori, domatori, saltimbanchi, trapezisti, pagliacci e (perfino) qualche animale - dove gli "eletti" (per carità, nessun "prediletto da Dio") dovrebbero finalmente dar prova di sé e risolvere (o provare a farlo) con le loro "precipue competenze" parte, qualcuno o solo uno dei problemi che opprimono me e quelli come me dalla notte dei tempi.
Una considerazione amara? Forse, ma temo un sentimento comune - certo con sfaccettature, motivazioni e argomentazioni forse più nobili e comunque diverse dalle mie - che credo sia alla base del record di astensioni registrato alla tornata elettorale appena conclusasi nelle due regioni, per differenti motivi, simbolo (e specchio) della situazione politica italiana. Perdere il 60% in media dell'elettorato, al primo turno poi, in una competizione che colpiva gli interessi e i bisogni di un territorio, pur allargato, ma comunque fortemente connotato - non il lontano e indistinto "interesse nazionale" - preoccupa e inquieta.
E invece di interrogarsi seriamente e prendere atto di un distacco che appare ormai irreversibile tra elettore ed eletto, la classe politica italiana ha iniziato il solito gioco del rimpiattino, la conta delle pecore (gli elettori) buone e di quelle cattive, l'esegesi sofistica dei numeri e delle loro frazioni, l'apologia ottusa (e quasi sempre errata), potemmo dire quasi calcistica, dei vincitori e dei vinti, con l'alibi dell'astensione per riscrivere una classifica che a conti fatti, invece, resta quella e non muta.
E giù non stop televisivi, comizi post-elettorali, litigi furibondi in ogni dove, acculturatissimi o acidissimi (anche al contempo) fondi su giornali nazionali, perdite di tempo e voce per affermare l'inaffermabile principio dei se e dei ma. Che noia! Assistiamo da anni alla stessa scenetta nei giorni che seguono ogni consultazione elettorale, piccola o grande che sia, dopo aver dovuto superare a fatica lo sgomento dei giorni che la precedono.
Nessuno che riscatti il suo ruolo, teoricamente nobile, di amministratore per conto terzi della "res publica", riconoscendo una vittoria o il suo merito e avviando un'autocritica costruttiva al suo interno non dico per vincere ma almeno per migliorarsi domani. Quei pochi (meritevoli) che lo fanno sono regolarmente subissati di insulti e ostracismi. Così la disaffezione del "popolo caprone" cresce. E a furia di essere ignorato o messo in secondo piano, resta sempre più numeroso a casa sua.
La scrittrice femminista canadese Wendy McElroy ha detto: "Il voto non è un atto di libertà politica, ma un atto di conformità politica. Coloro che si rifiutano di votare non stanno in silenzio, stanno urlando all'orecchio del politico: "Non mi rappresenti, questo non è un sistema in cui la mia voce conta, non ti credo"".
Pensate che qualcuno prenderà infine atto di questa "mutazione democratica" e cambierà i suoi comportamenti pubblici o privati? Scordatevelo. Se non ci credete provate, come ho fatto io, a scrivere a un noto politico nazionale, previa presentazione di un suo compagno di ventura, per complimentarvi per le scelte politiche (non ideologiche) compiute e dare la vostra disponibilità a un percorso condiviso con i modi e i tempi da lui stabiliti. Se contate su una risposta rinunciatevi. Neanche un grazie. Troppo presi, lui e quelli come lui (se non tutti), ad autoreferenziarsi, dimentichi che i loro veri datori di lavoro siamo noi e a noi devono rivolgersi e dar conto.
Non è sterilmente tra loro il dibattito o lo scontro. Non è facendo prevalere le loro ragioni in un talk show televisivo che soddisfarranno le nostre. Le ultime elezioni lo comprovano ormai inequivocabilmente. Ancora. Dire che la maggioranza assoluta di una minoranza altrettanto assoluta è una "stortura democratica" (sempre senza darsi la benché minima colpa per tanta disaffezione) è un'affermazione sciocca o, al meglio, opportunistica. Sono almeno 20 anni che eleggiamo, qui come altrove, sindaci al secondo turno con la maggioranza anche di due minoranze successive senza che nessuno se ne sia mai dato pena e vogliamo farlo ora? A che scopo? Per invogliare la gente a votare la prossima volta? Sono certo di no. Condivido così, infine, Giovanni Soriano, che nel suo recente (e bel) libro, "L'inconveniente umano. Principi di sana e consapevole misantropia", ha scritto: "L’astensionismo elettorale, oggi sempre più diffuso nei paesi occidentali, non è una crisi della democrazia, come credono politici e politologi, ma una crisi del sistema politico basato sul consenso piuttosto che sulla competenza."
*Neurologo, responsabile sezione Sanità Confindustria Benevento