Napoli

La pandemia da Sars-Cov-2 - oggi a giudizio dell'Oms ridotta a poco meno di una epidemia - ha rivelato al mondo intero tanto le fragilità inaspettate dei sistemi sanitari più evoluti e di cui molto ci gloriavamo (il nostro, come quello statunitense, per citarne uno che prendevamo spesso ad esempio) quanto la cagionevolezza proprio delle popolazioni dei paesi più industrializzati e ricchi.

Il motivo è presto detto. In quelle aree geografiche dedite al consumismo più sfrenato si annidano ormai la gran parte dei malcostumi sociali e personali che sono alla base del progressivo sfaldamento delle certezze di salute e integrità fisica accumulate in secoli di "affinamento" del rapporto tra ereditarietà e habitat. E proprio dal nostro patrimonio ribonucleico partiamo per raccontare questa breve storia di involuzione antropologica e, temo di pari passo, sanitaria.

Un recente studio riassuntivo delle trasformazioni genetiche dell'uomo dalla notte dei tempi a oggi ha di fatto sancito che il DNA, che oggi portiamo con tanta prosopopea ma non altrettanto onore dentro ciascuna delle nostre cellule, è di fatto lo stesso dell'homo erectus di un milione e mezzo di anni fa. Ciò che è cambiato è l'ambiente in cui viviamo e pertanto l'interazione tra quel substrato imprescindibile del nostro corpo e l'aria che respiriamo (se la respiriamo), i movimenti che compiamo (o che rimandiamo), i cibi che mangiamo e come li mangiamo, gli spazi (intesi proprio come metri quadri) che ci concediamo, i vizi e le virtù a cui ci abbandoniamo, i bisogni di cui ci cibiamo o per cui ci malediciamo, le felicità che ci concediamo oppure ci neghiamo.

Le nostre catene polinucleotidiche sono là, immutabili, a confrontarsi con i cambiamenti - ora divenuti frenetici - delle nostre vite, provando ad adattarsi, spegnendo o accendendo sequenze trascrizionali, metilando e riparando (quando possibile), allo scopo primario di conservare quell'omeostasi - la stabilità a dispetto delle variazioni - che ogni organismo vivente è obbligato a perseguire. In questo affaccendamento senza sosta né via d'uscita, qualcosa si è raggiunto. Viviamo più a lungo e apparentemente in buona salute.

In realtà è il codice cromosomico di accesso che, tra un salto mortale e l'altro (si chiama epigenetica), ci tiene sufficientemente in piedi. Certo a questo hanno contribuito anche le grandi innovazioni scientifiche, che ci hanno permesso di diagnosticare meglio (si spera anche prima) e curare con più efficacia (ci si augura anche con più precisione) le malattie a cui il nostro polimero organico a doppia catena proprio non è riuscito a far fronte.

Le malattie, infatti, sono "necessarie", come la morte, senza di esse non vi sarebbe una vera evoluzione delle specie viventi, siamo programmati per inciampare, rallentare e finire, ma qualcosa in questo percorso obbligato verso l'inesorabile dobbiamo aver sbagliato, in particolare proprio in quelle latitudini del benessere dove ci crogiolavamo, se un esserino infinitesimale ci ha messo così vergognosamente in ginocchio. Eravamo (siamo) così vulnerabili e non lo sapevamo? Polimorbilità e politerapie imbellettavano solo un corpo esausto e minato proprio in quelle fondamenta (genetiche) che hanno costituito da sempre il nostro vanto di esseri umani? Forse sì, e lo dicono proprio i dati epidemiologici mondiali, che da anni segnalavano un pericolo che abbiamo continuato ciecamente e ostinatamente a ignorare. Sono decenni, infatti, che sovrappeso/obesità, diabete, ipertensione e dislipidemia, insieme più che separatamente, costituiscono la nuova marea epidemica non trasmissibile dei paesi industrializzati, con tutta la sua lunga sequela di conseguenze, per lo più mortali per l'uomo.

Infarti, ictus e tumori, tutti in costante e inarrestabile crescita, da quei disturbi infatti discendono direttamente e a loro sono avvinti indissolubilmente. Una malsana alimentazione (tra prodotti sempre più processati e raffinati quando non sono manifestamente edulcorati o contaminati) e/o troppo ricca di sodio, la precocità nel consumo di bevande alcoliche tra i giovani, uno stile di vita sempre più sedentario e troppo esposto a ogni declinazione di stress e di emarginazione (con gli inevitabili scompensi psico-fisici) sono alcuni tra i motivi di una discesa sempre più ripida e veloce nel torbido gorgo di un benessere fisico solo apparente.

I segni, i marcatori biologici sarebbe più corretto dire, di questo recente e crescente disagio del corpo umano, sono tutti là, ormai da tempo, sarebbe bastato leggerli, riconoscerli e porvi rimedio in tempo utile. Un valore glicemico sempre più spostato verso l'alto (insieme alla sua parente stretta, l'emoglobina glicata), degli indici ematici di infiammazione, cosiddetta sistemica di basso grado, costantemente presenti in una fascia montante di popolazione senza che nessuno li rilevasse quali funesto presagio di morbilità e mortalità, patologie epatiche e renali non adeguatamente indagate per svelarne lo stato preclinico e correggerne gli effetti esiziali a lungo termine. Per non parlare dell'intestino, il secondo cervello, che sembra governi il primo più di quanto si immaginasse, dal cui equilibrio microbiomico - la flora batterica (e non solo) in esso contenuta - e dalla cui permeabilità, entrambe misurabili,  pare discendono molte delle malattie più diffuse e molta della nostra resilienza.

Esistono algoritmi diagnostici non (ancora) robotizzati da convenire e implementare nel nostro fare quotidiano di medici e scienziati, anamnesi più accurate da compiere, preferibilmente alzando la testa da computer e scartoffie, pazienti da visitare con più coscienza e più sapere. E c'è tutto un lavoro di salute pubblica da realizzare, nei piccoli come nei grandi ambiti. Non c'è più tempo da perdere. Educhiamo i nostri figli e noi stessi al valore vero della salute, non a quello posticcio dell'apparire senza essere. 400mila nuove diagnosi di tumore e quasi 250mila morti per cause cardiovascolari all'anno solo in Italia, nonchè un'enormità di decessi evitabili da covid-19, ci impongono di non rimandare oltre una decisione da prendere con tutti gli attori in campo e per il bene di tutti. Se tra mille anni saremo quelli immaginati da un gruppo di ricercatori USA - collo taurino, tre palpebre, occhi spiritati, cervello piccolo, colonna vertebrale più curva di una C e mano ad artiglio - nessuna intelligenza artificiale, anche la più evoluta, potrà salvarci. Né di certo il nostro buon vecchio DNA o quello che ne resterà di lui. Sarà meglio ricordarlo.

*Neurologo, responsabile Sanità Confindustria Benevento