Una nuova udienza per il processo nato dall'inchiesta "Aste ok" del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Avellino e il Nucleo Pef delle Fiamme Gialle di Napoli che hanno indagato su questo nuovo filone di illeciti che vede protagonista il Clan Partenio. Indagine che ha portato all'imputazione di 22 persone con l’accusa, a vario titolo, di associazione finalizzata alla turbativa delle aste fallimentari presso il Tribunale di Avellino, alla tentata estorsione e all’intestazione fittizia di beni.
Il primo testimone in aula questa mattina riferisce della propria vicenda personale: “Quando a causa di alcuni problemi economici legati alla mia attività mi pignorarono la casa, la metà del mio immobile finì all’asta. Quando i “Tre Tre” sono andati a vedere la casa e manifestarono il loro interesse sapevano molte cose di me, anche che c’era una causa per usucapione in corso, non so come facessero a essere in possesso di questa informazione.
Allora pensai di mandare il mio avvocato a parlare con l’avvocato di Aprile per distoglierlo dall’idea di partecipare all’asta, lui mi chiese 70mila euro in cambio. A quel punto decisi che avrei dovuto parlare direttamente con lui. Aprile mi disse che l’immobile adesso era suo. Mi disse che io non avevo idea del potere che aveva lui ad Avellino, che aveva contatti con i migliori studi legali della zona, che se non avessi cacciato i soldi sarebbe riuscito a far andare all’asta anche la quota di mia moglie.
Alla fine, dopo qualche incontro, ci siamo accordati per 13mila euro, che io gli ho dato, 5mila euro in contanti e il resto diviso in due assegni bancari. Servivano per far sì che lui non partecipasse all’asta”.
L’altro testimone, A. L.: “Sono un imprenditore conciario, la mia azienda maturò un debito che portò al pignoramento dell’immobile, il capannone industriale, che fu valutato un milione e 20mila euro.
Prima dell’asta i carabinieri fecero un controllo per verificare che i parametri di conformità fossero in regola. Ci furono dei problemi sia a livello edilizio che urbanistico, tanto che apposero i sigilli alla fabbrica.
In vista della quarta asta, il custode mi informò che il signor Armando Aprile aveva intenzione di presentare un’offerta di 19mila euro per partecipare all’asta. Io sapevo cosa faceva Aprile con gli immobili al Tribunale di Avellino, non volevo scontrarmi con lui e così decisi di non presentare la mia offerta.
Il giorno dell’asta mi avvicina Aprile, mi dice: “Io sono un imprenditore e faccio affari, parliamone giù al bar”. Mi chiese di fargli un’offerta per non farlo partecipare all’asta, e che lui l’avrebbe valutata. Gli offrii i 19mila euro più altri 5mila euro circa. Lui mi rispose che stavo totalmente fuori trattativa e che ci saremmo sentiti. Successivamente ci fu un altro incontro, in cui mi fece tre offerte: lasciare che l’immobile fosse aggiudicato alla società “Arca di Noè”, che aveva presentato l’offerta, e che poi avrei potuto riacquistare da loro con una maggiorazione di 50mila euro, la seconda che non avrebbe più saldato l’acquisto in cambio di 70mila euro e la promessa di non far partecipare nessun’altro, così che avrei potuto accedere all’asta alla prossima udienza, la terza che lui avrebbe comprato la conceria per rivenderla a un prezzo di 70mila, in più con l’ipoteca sull’immobile. Risposi che avrei dovuto riflettere, mi disse che avevo due giorni di tempo. Ci vedemmo al ristorante It’s Ok, c’erano Armando Aprile, Livia Forte e suo fratello, gli dissi che la cifra era troppo alta, che non avevo quella disponibilità”.
Il controesame della difesa è atteso per la prossima udienza, fissata al 16 settembre.