Atripalda

Queste elezioni comunali andranno ricordate in primo luogo per la bassissima affluenza al voto (-5% rispetto a quella, già declinante, del 2017): segno non tanto di una stanchezza da parte dell’elettorato, quanto invece di un rifiuto, anzi, per meglio dire, di una ripulsa nei confronti del vuoto politico-programmatico, dell’individualismo esasperato, del trasformismo e del trasversalismo che hanno contraddistinto gli ultimi dieci anni; di un rigetto, infine, delle forme attualmente dominanti nella politica atripaldese, a partire dalle liste-fotocopia (perché in larga misura le stesse di cinque anni fa) propinate all’elettorato dai due principali schieramenti: scelta maldestramente dissimulata con l’operazione meramente cosmetica del cambio di nome delle liste stesse.

Tutto ciò si è riversato - e non poteva essere diversamente - in una campagna elettorale asfittica, sporadica (mai visti così pochi comizi), priva di pensieri lunghi, segnata da velenosi personalismi e non esente da qualche episodio di prevaricazione: una campagna in cui alla cittadinanza sono state offerte, invece che visioni generali, delle narrazioni, invece che progetti e soluzioni, delle autobiografie. Risalta su tutto, naturalmente, la sconfitta, personale, pesantissima e senza appello, di Giuseppe Spagnuolo e della sua compagine, che trova plastica rappresentazione nella falcidia degli assessori, dalla quale esce indenne soltanto il cerchio magico dell’ex primo cittadino.

Una débacle che si riassume nei numeri: mai un sindaco in carica aveva riportato una percentuale così bassa di consensi. Ciò sanziona una conduzione amministrativa autoreferenziale, arida, sempre al di sotto degli standard che le funzioni ricoperte avrebbero richiesto, soprattutto in occasione delle numerose emergenze, nazionali e locali, alle quali la nostra città è stata esposta. Un modo di amministrare che ha eretto - tra sé e la cittadinanza - un muro invalicabile, e che proprio nei momenti di crisi, laddove la democrazia dovrebbe valorizzare maggiormente il proprio volto umano, ha rivelato invece la propria evanescenza e una siderale distanza dai bisogni profondi della popolazione.

È per questo motivo che anche nel voto che ha premiato largamente "Attiva Atripalda" non si può non scorgere una componente che, sia pur in modo debole e contraddittorio, ha perseguito (in mancanza, purtroppo, di un riferimento a sinistra o pur genericamente progressista) il cambiamento, se non altro per evitare il consolidarsi di rendite di potere personale e colpire stili e modalità di comportamento sovente protervi ed arroganti.
È ora, in ogni caso, che le consorterie sgombrino il campo e che torni il protagonismo della politica, intesa come agire autenticamente collettivo.

Occorre costruire fin d’ora l’alternativa alla diarchia mobile degli Spagnuolo e alla guerra per bande del PD, rilanciando un percorso di democrazia partecipata (a partire dagli istituti previsti dallo Statuto e lasciati colpevolmente languire nel corso di questi anni). Occorre costruire un’idea di città realmente plurale che chiuda definitivamente con l’ossessione monotematica della "città dei mercanti", un anacronismo storico angusto ed iniquo.

A tal fine sarebbe davvero auspicabile che tutte le intelligenze critiche, le energie giovanili emerse in questi anni, le diverse forme di cittadinanza attiva, compissero un altro piccolo ma decisivo passo in avanti verso un impegno politico diretto, nella consapevolezza che la liberazione autentica presuppone sempre un percorso di autoliberazione e un rifiuto delle deleghe in bianco. Rifondazione Comunista e la sinistra faranno la loro parte.