La Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari istituita dalla conferenza dei Rettori delle Università Italiane), esprime il proprio sconcerto e la propria preoccupazione per quanto emerso dall’indagine su quanto avvenuto nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
La Cnupp raggruppa 38 Atenei che operano per garantire il diritto allo studio universitario ai detenuti in oltre 80 istituti penitenziari di tutta Italia. Sono oggi più di 1.000 le persone recluse che seguono percorsi universitari. Nel quotidiano lavoro nelle carceri abbiamo modo di incontrare la sofferenza di tanta parte della popolazione detenuta e le difficoltà di chi vi opera (direttori, polizia penitenziaria, personale dell’area trattamentale). Vediamo tante problematiche quotidianamente affrontate con serietà e dedizione, ma anche tanti problemi strutturali sempre trascurati e tante distorsioni nella gestione dei ruoli e delle regole.
Come Università siamo impegnati da anni ad affermare concretamente che la privazione della libertà non significa privazione di altri diritti. Nel nostro caso il diritto allo studio, anche universitario. Ma più in generale il diritto al veder rispettata l’integrità e la dignità di chiunque sia recluso, alla salute fisica e psichica, alle relazioni familiari e all’affettività. Perché questi principi si affermino serve una grande “rivoluzione culturale” che investa tutta la società e chi professionalmente opera in quei contesti (in primis gli appartenenti alla polizia penitenziaria la cui formazione va profondamente ripensata) sul significato delle pene e sulle modalità di esercizio dell’esecuzione penale che abbiano alla base il rifiuto di violenze e sopraffazioni.
Ci ispirala convinzione, fondata su ormai numerose esperienze, che chi esce dal carcere tanto più potrà evitare di ritornarvi quanto più abbia trovato in esso opportunità e relazioni che rendano possibile un percorso di maturazione e consapevolezza, acquisendo strumenti per progettare il proprio futuro. Solo operando in questo senso, peraltro, si garantisce maggiore sicurezza alla società intera.
Le Università italiane impegnate nelle carceri sono disponibili ad offrire, per questo fine, il contributo scientifico e culturale di cui sono portatrici. Ma sono consapevoli che senza profondi cambiamenti sul piano culturale e organizzativo il loro impegno per gli studenti detenuti, come quello di tante espressioni delle comunità locali e della società civile che in carcere operano, finisce per essere una goccia in un mare. Di più: consentendo che si rappresentino - spesso enfaticamente e retoricamente - iniziative come le nostre come punti di eccellenza, si rischia di occultare il funzionamento “normale” delle istituzioni penitenziarie, segnato troppe volte da problemi strutturali irrisolti e da logiche ispirate al mero contenimento.