Un tesoro enorme sottratto ai clan o a chi, più in generale, nella propria vita ha fatto del crimine la propria bussola. Un patrimonio che dovrebbe essere della collettività, ma che nella maggior parte dei casi resta ancora inutilizzato. Eppure il meccanismo è in sofferenza e la macchina delle misure di prevenzione patrimoniale non viaggia come dovrebbe.
Troppe le questioni irrisolte. In primis l'Agenzia dei beni sequestrati e confiscati che si inceppa nell’ultimo passaggio della riassegnazione: immobili che restano vuoti o ancora occupati dai familiari dei boss in carcere, terreni abbandonati dove invece potrebbero nascere cooperative di giovani. Così lo strumento principale di lotta alle cosche è diventato l'emblema dell'antimafia che non funziona. Tranne qualche rara eccezione.
Ci sono i giovani che lavorano le terre che furono di ‘ndrangheta, camorra, cosa nostra e sacra corona unita. Ci sono le case dei padrini trasformate in maglifici industriali. Come quello di Quindici. Esempio unico che va avanti tra mille difficoltà, sfidando le resistenze dei mafiosi che vorrebbero riconquistare il loro territorio e l'indifferenza di buona parte della politica che sul contrasto alle mafie tace, salvo poi presentarsi alle commemorazioni per le vittime illustri.
Esempio unico che induce inoltre a pensare che in Irpinia quelli di Quindici, Villa Cava e Villa Graziano, siano i soli beni confiscati alla criminalità organizzata. Non è così. Ve ne sono altri 24. La fonte è l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. La maggior di questi non sono stati ancora riconvertiti socialmente. Un dato allarmante: abbiamo un tesoro e non sappiamo come utilizzarlo. La mappa: 2 ad Avella, 3 a Montoro, 9 a San Potito Ultra, 2 a Sant’Angelo a Scala, 2 a Santo Stefano del Sole, 2 a Summonte e 2 a Taurasi.
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Rocco Fatibene