Avellino

Applausi scroscianti all'uscita del feretro dalla sua abitazione, volti solcati dalle lacrime, incredulità. A Battipaglia, l'ultimo saluto a Filippo Viscido è stato allo stesso tempo commovente e straziante. L'ex centrocampista dell'Avellino, che la scorsa domenica si è tolto la vita a soli 31 anni, si è portato via più di un pezzo di cuore. Di tutti. Viscido lascia i suoi affetti, ma anche un'angosciante riflessione su cosa si cela dietro le maschere più disparate che ciascuno di noi può indossare. La sua era quella del “pitbull”, per la ferocia con cui giocava ringhiando sulle caviglie degli avversari e ogni pallone. Nella vita, però, non c'è solo il campo, per cui Viscido viveva. Nascoste dietro quel soprannome, c'erano, evidentemente, fragilità e paure non comprese fino in fondo, fatalmente celate con la dignità di un uomo vero, sensibile, dal cuore tenero e malinconico.

Tormenti interiori venuti fuori quando era già troppo tardi; quando, scambiate le ultime parole al telefono con suo padre, una volta salutati i figli e la moglie, partiti alla volta del mare, quella maschera l'ha spaventosamente e irrimediabilmente gettata via, nel silenzio del garage della sua abitazione. “Da quello che ho capito aveva un nemico nel cervello, che lo tormentava e se lo è preso in un minuto” ha raccontato al collega Ottavio Giordano il padre di Viscido, Domenico: esemplare per la compostezza con cui ha partecipato al saluto che è stato tributato al suo ragazzo allo stadio “Pastena”. Palloncini bianconeri, color Battipagliese, e biancoverdi, come quelli del suo Avellino, per cui avrebbe giocato anche gratis. Come ripeteva sempre. All'Avellino, Filippo sarebbe voluto tornare, “anche a piedi”, non più tardi dell'estate del 2018 quando i lupi scivolarono in Serie D.

Un déjà vu, per lui, che aveva indossato quella maglia per la prima volta proprio nella vecchia Interregionale lasciando, senza indugi, un contratto triennale alla Cavese. Dietro alla bara, sua figlia Naomi indossava proprio quella maglia numero 4 biancoverde che per Filippo era stato l'orgoglio più grande, che in lui aveva scatenato un senso si appartenenza autentico. Un legame con le radici affondate nel cuore, portato avanti anche da tifoso, sugli spalti del Partenio, dove, dopo un gol al Sambiase dell'allora tecnico Erra aveva sfoderato un'esultanza Mundial stile Tardelli, e perfino in trasferta: in tanti ricordano la foto scattata nel settore ospiti dell'Arechi di Salerno in occasione del derby del settembre 2015. E a proposito di orgoglio. Lo era per Filippo proprio Naomi, che lo ha sempre accompagnato con sua moglie Mina e il figlio Domenico quando non esitava a sobbarcarsi kilometri su kilometri, andata e ritorno, senza mai dare una buca, per parlare un'ora e mezza, in tv, del suo Avellino.

In redazione, dopo aver salutato tutti perché papà lo pretendeva, Naomi, o meglio "Popuzza", si esibiva in ruote un po' spericolate, si raccontava di galline addomesticate tra le risate di Domenico e Filippo, dopo aver fatto sfrenare i suoi piccoli, li riportava alla calma perché l'educazione, che lui aveva imparato, doveva essere la prerogativa pure dei figli. Guardando Naomi, guardando Mina, pensando a Domenico, non si può fare altro che continuare a chiedersi: perché? Ma non è tempo delle domande, è solo tempo del dolore. Forse è il tempo di imparare ad andare a capire che ci sono mali che non si vedono, ma esistono. Forse è tempo di sforzarsi di andare oltre la percezione più superficiale che possiamo avere degli altri. Allenarsi a guardare. Oltre. squarciando il buio di quel “mal di vivere” con la luce di un amore che Filippo già aveva intorno a sé, ma che non è riuscito a sentire fino in fondo. O almeno quanto gli sarebbe bastato per continuare a essere con noi. Con tutto il suo saper vivere. Addio.