di Ciccio Capozzi

Come si sa, il 2021 è il 700° anniversario della morte di Dante (il 14 Settembre a Ravenna; mentre era nato a Firenze nel 1265, il giorno esatto non si sa con certezza), e già l’ufficialità culturale ci sta letteralmente abboffando. Come il Premier Draghi, diventato in brevissimo tempo, grazie alla concentrata propaganda dei “giornaloni”, l’Unto che cammina sulle acque, per salvare l’itala derelitta nazione, così ci faranno credere che il “santino” Dante Alighieri abbia avuto similari caratteristiche; e che però i già richiamati giornaloni solo ora lo possono accreditare per tale ( perché, ahimé, allora non c’erano…). Ma non ce ne faranno capire un’acca.

In realtà è una personalità complessa: la cui formazione, profondamente medievale, per una singolare, originale e assolutamente geniale combinazione, pur dall’interno del Medioevo (ribadisco), ne fuoriesce e arriva, attuale e contemporaneo, fino a noi.

Qui mi limiterò a tratteggiare alcuni aspetti della sua articolata formazione filosofica, e di come questa sia stata parte integrante del suo procedere nella ricerca e nell’approccio scientifico relativo ad alcune questioni di sperimentazione letteraria e  linguistica; oltre che di politica.

La sua educazione, come quella di tutte le élites culturali dell’epoca, è aristotelica: il grande filosofo greco ne era il perno. E lo era di tutti i percorsi sia scientifico-filosofici che letterari del sapere. “Il maestro di coloro che sanno”, come lo stesso Dante dirà nel c IV dell’Inferno, era l’imprescindibile must di ogni accesso agli alti studi. Non solo la sua filosofia, ma soprattutto i suoi metodi erano alla base di tutti gli itinerari conoscitivi riconosciuti. Soprattutto se si voleva pervenire alla qualifica assai remunerativa di Magister. Specialmente dopo che la Chiesa, nel suo magistero d’indirizzo e di condizionamento ideologico, grazie all’apporto del Dottore Angelico (San Tommaso d’Aquino), aveva trasformato l’Aristotelismo da lui riformato, nella sua teoria ufficiale.

Tuttavia c’è un ma…

Non è che l’aristotelismo, essenzialmente basato sull’esperienza concreta, benché governato da un’estrema rigidità logico-dialettica, nella stessa Chiesa ebbe vita facile. Sostenuto dal potente Ordine dei Domenicani, l’indirizzo fu osteggiato dall’altro potente Ordine, quello dei Francescani, sia per motivi di politica culturale che di brutale lotta per il  potere nelle istituzioni della Chiesa: guerra condotta in modi felpati e sotterranei, non immediatamente avvertibili. I Francescani, che si rifacevano all’idealismo di Platone e alla filosofia mistica di Sant’Agostino, ben presenti nelle importanti Università di Parigi e di Canterbury, riuscirono a far condannare nel 1277 e nel 1288, numerose Tesi di San Tommaso, che solo nel 1325, quindi dopo la morte di Dante, fu canonizzato, con la vittoria dei Domenicani.  

Come si poneva Dante in questo conflitto? Si poneva in modi filosoficamente autonomi e spregiudicati. Egli, come accennavo, era di formazione aristotelica: ma non quella prevista dal Canone  di San Tommaso. Egli seguiva -tramite Alberto Magno, e, soprattutto, Sigieri di Brabante (da Dante stranamente e misteriosamente posto addirittura nel Paradiso, c X) e Boezio di Dacia- , l’interpretazione che di Aristotele dava Averroé, il grande filosofo musulmano di Cordova. Essa si fondava su una forma di neoplatonismo tendenzialmente ereticale: ma che fu alla base soprattutto della struttura ideativa del Paradiso. Il Neoplatonismo, nato nel II sec d. Cr. è una filosofia che metteva al centro della creazione una Sostanza Immortale, che per i seguaci cristiani s’identificava con Dio, che quasi “necessariamente”, esce fuori di sé, e “crea” (come riversandosi da una pentola in perpetua ebollizione…) numerose Sostanze Intermedie, che per Dante erano le Potenze Angeliche, che, a loro volta, nelle forme di Intelligenze che muovono i cieli – di cui c’è menzione nel Paradiso-, “infondono” elementi della sostanza divina nelle creature “inferiori” e creano  l’anima: ovvero fanno che in questa corruttibilità terrena, siano presenti componenti immortali, provenienti da quella divina di partenza. Sono tesi che nella loro ambiguità, hanno numerosi aspetti eretici: tanto che sviluppandone rigorosamente tutte le implicite derivazioni concettuali, come ad esempio nella stessa concezione di Dio, potrebbero pure arrivare ad affermare la mortalità dell’anima (come era in Averroé).

Ma Dante sa di stare su una strada “pericolosa” rispetto all’ortodossia? Certo che lo sa.

E perché lo fa? Perché il suo percorso filosofico, di affrancamento dalle idee  dominanti, era la cornice in cui esprimeva la sua più totale differenziazione sul terreno politico. Dante cominciò da Guelfo, quel “partito” sovracomunale e sovranazionale che intendeva limitare le ingerenze dell’Impero Germanico in Italia: ma non per permettere al Papato di sostituirsi ad esso.

Lo Stato della Chiesa, vedeva la città del Giglio come la propria piazzaforte finanziaria da controllare, perché doveva milionate di  fiorini ai suoi banchieri: e ne voleva la gestione politica. Non era che aggressivo controllo politico-militare, sotto l’ipocrita mantello della missione di pace e giustizia. Dante vi si opponeva fermamente. Da qui la sua la condanna all’esilio. La risposta del sommo poeta fu rivoluzionaria: scrisse il “De Monarchia”  (1308; oppure 1311-13) che attaccava frontalmente le pretese del Papato su Firenze e sull’Italia; addirittura preconizzò la venuta dell’Impero Germanico in Italia, per ristabilire l’equilibrio nell’intera penisola, che avvenne nel 1313. Però ebbe le sembianze di un tizio malaticcio e incapace: Arrigo VII di Lussemburgo, che niente risolse. La Chiesa la mise all’ Indice dei Libri Proibiti, per blasfemia e eresia: ma, nonostante la sua contrarietà, l’opera ebbe una grande risonanza.

Quando, poco dopo la morte, uscì il Paradiso e si poté leggere integralmente la “Commedia”, si comprese come l’ardita concezione politico-filosofica di Dante era tutta interna ad essa: era la cornice strutturale di una poesia potente e ricca, direi fortemente innervata di cultura e politica. In lui misticismo, lirica, umanità, attacco diretto e sprezzante ai Papi -e proprio nel Paradiso! (cc XXVII e IX, e senza contare quelli nelle altre Cantiche)-, si armonizzavano, si completavano, si rinforzavano reciprocamente, rimandandosi l’un l’altra, con un simmetria senza pari. Dando vita addirittura ad una lingua letteraria che prima non c’era: l’italiano. Creò egli stesso gli strumenti tecnico-culturali per tradurre in grande e universale poesia una trattazione politica e filosofica così complessa.

Era un rivoluzionario che sfidò a viso aperto la più potente delle autorità del Medioevo: fidando solo sul suo genio, le sue idee, la sua cultura, il suo coraggio e sulla fiducia nel futuro. E la Chiesa non vi poté nulla.