Benevento

L'arresto risale a qualche settimana fa: lo ha eseguito la Squadra mobile, che ha accompagnato in carcere A.I., 47 anni, di Benevento – è difesa dall'avvocato Grazia Sparandeo -, riconosciuta colpevole di aver gettato in un canalone alla contrada Ripamorta la bimba che aveva messo al mondo. La condanna a suo carico è infatti diventata definitiva dopo la pronuncia della Cassazione, che ha confermato i 14 anni, per omicidio volontario, stabiliti nel luglio del 2019 dalla Corte di assise di appello di Napoli. Una sentenza che aveva ribadito quella della Corte di assise di Benevento, risalente al 22 giugno del 2015. Pena definitiva, dunque, con tre anni in meno da scontare perchè coperti dall'indulto.

Il legame biologico tra mamma e figlia era stato sancito all'epoca dalla comparazione dei Dna curata dai professori Ciro Di Nunzio e, poi, Antonio Oliva e Laura Baldassarri, entrambi della Medicina legale della Cattolica di Roma. “Non ero incinta, all’epoca non ero fidanzata, e due figli li ho avuti dopo essermi sposata nel 2004”, aveva ripetuto la donna durante il processo di primo grado.

Si tratta di un dramma del quale ci siamo ripetutamente occupati, scoperto il 2 aprile del 2000 alla contrada Ripamorta di Benevento. Una domenica pomeriggio: il corpicino senza vita della piccola, alla quale prima della sepoltura era stato dato il nome di Angela Speranza, era su un gradone di cemento, dove era finito, impattando violentemente con il suolo, dopo un volo nel vuoto di dieci metri. Letale la frattura cranica subita dalla bimba, che aveva respirato quando era venuta alla luce. L’aveva certificato, eseguendo l'autopsia, il professore Fernando Panarese. Nessuna accidentalità, magari un colpo rimediato al capo durante la fase di espulsione.

Le indagini, che non avevano dato alcun risultato, erano state riaperte nel 2011 dal sostituto procuratore Marcello Pizzillo dopo le dichiarazioni rese, alla fine del 2010, dall’ex moglie di un cugino di A.I. Frasi che avevano indicato una traccia che un ispettore di polizia in forza alla Procura, Antonio Massarelli, non aveva lasciato cadere, cercando e trovando i riscontri.

Il resto lo avevano fatto i risultati del test del Dna, reso possibile dai residui di saliva presenti su un mozzicone di sigaretta. Omicidio volontario aggravato, senza alcuna attenuante legata a situazioni di disagio: questa l’ipotesi con la quale il magistrato inquirente aveva chiesto che nei confronti della donna venisse applicata la custodia cautelare in carcere. Incontrando, però, il no del gip Roberto Melone, che aveva ritenuto non sussistenti, probabilmente per il lungo arco temporale, i presupposti. E altrettanto aveva fatto il Riesame rispetto all’appello presentato dal Pm. Nell’ottobre del 2013 il rinvio a giudizio stabilito dal gup Maria Di Carlo, i due processi e, infine, la decisiione della Cassazione.