In questi giorni si è discusso molto della riproposizione di “Natale in casa Cupiello”  del grande Eduardo De Filippo, fatta da Sergio Castellito per la Rai. Un’intera città si è trasformata in questi giorni in una fucina di critici, di esperti di Eduardo, di amanti di un teatro che purtroppo nella realtà nessuno ha difeso per anni. 
Certo la prova della Rai può essere paragonata ad un tentato suicidio, il coraggio di riprendere quello che è per Napoli e forse per l’Italia intera, il nostro “Canto di Natale” non è stato accompagnato dal coraggio di interpretarlo, svuotandolo della profonda magia che Eduardo riusciva a dare alle sue commedie. 

C’è stata poi la critica a prescindere, quella di chi sente violata la cultura napoletana, quella di chi ha deciso che Napoli deve vivere di ricordi, di chi si è convinto che la cultura partenopea debba essere cristallizzata. 

Napoli vive di passaggi, di attraversamenti, di incontri, di confronti, di scontri. In questo sta la sua forza, il suo splendore, la sua inimitabile unicità.
Napoli è la città della trasformazione, delle idee, dell’arte, del movimento continuo che non consente a nulla di essere conservato in un’immutabile stato di sacralità.  

Le tradizioni napoletana sono un mescolarsi di lingue, culture, credenze, esperienze e saperi di mondi lontano che, in questo groviglio di vicoli, di storie e di anime si sono attraversati, contaminati, mischiati nei secoli.
Eduardo ha rappresentato questo per il teatro. È stato rottura degli schemi, ricordo delle tradizioni, originalità e capacità di leggere il presente e il futuro di una società che cambia, senza mai perdersi nella banalità di rappresentare la tradizione come se fosse un luogo sacro da non violare. 

Il suo essere napoletano, il suo saper rappresentare la nopoletanità non è mai stato un limite alla sperimentazione o alla rottura degli schemi di una tradizione che va aggiornata sempre, perché la nostra, quella napoletana, è tradizione senza sosta, che non si ferma, che non prende polvere, che non si cristallizza, ma che resta viva, che si alimenta di incontri che nasce dai passaggi, che non ha tempo per fermarsi e farsi ammirare.

Eduardo, nel suo monologo più famoso, quello di “Questi Fantasmi” tra Pasquale Lojacono il professor Santanna, il dirimpettaio sempre silente che guarda tutto e che non dice nulla, che Aldo Giuffrè definì come “l’occhio del mondo”, rompe le regole, innova, parlando di una tradizione, quella del caffè a Napoli, che viene vissuta come profondamente napoletana, fatto con quella caffettiera che è chiamata napoletana, la cuccumella, ma che è in realtà francese, arrivata a Napoli da fuori. Anche il caffè, che a Napoli si vive come religione, è frutto di un passaggio che, come gli altri passaggi in queste strade, si ferma, si contamina, si trasforma e diventa parte di una storia millenaria, quella di Napoli e di un popolo sempre in movimento che non ha confini e non ha certezze.  

A noialtri napoletani, toglieteci tutto ma questo poco di riposo in terrazza…
Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori in terrazza, dopo quell'oretta di sonno che uno si fa dopo mangiato.
Però il caffè me lo devo fare io stesso, con le mie mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare anche sei, e, se le tazze sono piccole, anche otto… quando vengono gli amici… d’altra parte il caffè costa così caro…
Mia moglie queste cose non le capisce È molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista, sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi; danno pure una certa serenità di spirito. Nessuno potrebbe mai prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura… Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… 
Sul becco… lo vedete il becco?
Qua, professore, dove guardate? Questo…
Vi piace sempre di scherzare… No, no… scherzate pure… Sul becco io ci metto questo cappellino di carta…
Sembra niente, ma questo cappellino ha la sua funzione… E già, perché il fumo denso del primo caffè che esce, che poi è il più carico, non si disperde.
Come pure, professore, prima di versare l'acqua, bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di versarla, vi dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata. Un piccolo segreto ! In modo che, nel momento in cui sale, l'acqua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo.
Professore, anche voi vi divertite qualche volta, perché, spesso, vi vedo fuori in terrazza che fate la stessa cosa.
Sì, sì anch’io. Anzi, siccome, come vi ho detto, mia moglie non collabora, me lo tosto da me…
Anche voi, professore?… Fate bene… Perché, quella, poi, è la cosa più difficile: indovinare il punto giusto di cottura, il colore…: color "manto di monaco". È una grande soddisfazione, ed evito pure di arrabbiarmi, perché se, per una dannata combinazione, per una mossa sbagliata, sapete… vi scappa di mano la cuccuma…e si mescola il caffè con i fondi insomma, viene uno schifo… siccome l'ho fatto con le mie mani e non posso prendermela con nessuno, mi convinco che è buono e me lo bevo lo stesso.
Professore, il caffè è pronto.
Ne volete un po’… Grazie.
Accidenti, questo si che è un caffè… Vedete quanto ci vuole poco per rendere felice un uomo: una tazzina di caffè presa, tranquillamente, qui fuori… con un simpatico dirimpettaio… perché voi siete simpatico, professore…
Adesso mezza tazzina la conservo, e me la bevo tra una sigaretta e l'altra.
Come?… Non ho capito.
Aaah… sì, sì… Niente, professore l’avevo detto : sciocchezze. Non ho mai creduto a questo genere di cose, sennò non ci sarei venuto ad abitare.