Si avvicina un Natale, diverso, inedito, completamente ripensato nei gesti, nella mente e nelle teste prima ancora che nelle dinamiche economiche e sociali. 

Si avvicina una delle feste più trasformate dal modo di vivere la socialità nei tempi. Il Natale che un tempo era un momento di vicinanza, di condivisione, di riflessione, è diventato nei decenni un metodo per spingere i consumi, un racconto lucente di una bontà racchiusa in uno schema prettamente occidentalizzato fatto di luci, di pacchi, di colori sgargianti, di divertimento, di consumi. 

Il Natale ha perso da lungo tempo un significato reale in una società che si regge esclusivamente sulle dinamiche del consumo, le tradizioni, laiche o religiose, se non inserite in queste dinamiche si perdono, scompaiono, muoiono. 

In questi giorni di cambi di colore, di proteste, di assembramenti, di mascherine, di paura e di totale e manifesta incapacità, ci sono, affianco al dramma del Covid-19, i drammi di sempre, quelli strutturali che non passano, che nessuno risolve, che molti provano a non vedere e che molti altri provano a cavalcare. 

In un mondo spazzato da un vento pandemico che puzza di morte, ci sono i drammi individuali e collettivi di chi scappa dalla sua terra spaventato, con l’orizzonte di una vita migliore, con la speranza di poter sopravvivere, con la voglia di difendere il diritto alla vita suo e della sua famiglia. Un dramma che non si ferma con i DPCM, che non si risolve con nessun fund europeo, che non si allevia con il buonismo da salotto e che non si fa scomparire con i rutti xenofobi di qualche nazionalista senza scrupoli. 

Un dramma fatto di maltrattamenti, violenze, percorsi infiniti e impervi coperti a piedi tra intemperie, pericoli e sevizie. Un dramma fatto di blocchi, di fili spinati, rimpatri, di urla contro, di sogni e speranze disattese. Un dramma fatto di esseri umani trattati come bestie e costretti a vivere in campi che si sono trasformati in incubi reali nei quali i migranti pagano con la loro sofferenza un permesso alla vita che invece non dovrebbero chiedere a nessuno. Un dramma fatto di morti affogati, di nomi senza corpi e di corpi disidratati senza nomi trovati nel fondo di quel mediterraneo che è lo stesso mare delle nostre vacanze.

Oggi i migranti non sono solo più “i cattivi e pericolosi che vengono a rubarci il lavoro, a stuprarci e a violentare i nostri valori e le nostre tradizioni”, oggi sono anche “gli untori che portano il virus”. Eppure a chi si erge a difensore delle tradizioni e dei valori cristiani, a chi brandisce i rosari come se fossero pugnali o forconi, va ricordato, proprio a Natale, che quel bambino nato poco più di 2mila anni fa era un migrante, un povero, uno nato in una culla di fortuna. Andrebbe ricordato a chi oggi parla dei valori fondati dell’Europa che il primo e forse unico valore che unisce questo continente è quello dell’accoglienza e del rispetto degli esseri umani. 

Per questo ricordare oggi in questi giorni di colori che cambiano e di zone grigie che nessuno ha mai neanche provato a colorare, il discorso che Papa Francesco tenne il 19 dicembre 2019 incontrando i rifugiati arrivati da Lesbo attraverso i corridoi umanitari, ha un valore forte e ci aiuta a riscoprire davvero il Natale e i suoi mille significati, laici e cristiani. 

Questo è il secondo giubbotto salvagente che ricevo in dono. Il primo mi è stato regalato qualche anno fa da un gruppo di soccorritori. Apparteneva a una bambina che è annegata nel Mediterraneo. L’ho donato poi ai due Sottosegretari della Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Ho detto loro: “Ecco la vostra missione!”. Con ciò ho voluto significare l’imprescindibile impegno della Chiesa a salvare le vite dei migranti, per poi poterli accogliere, proteggere, promuovere ed integrare.
Questo secondo giubbotto, consegnato da un altro gruppo di soccorritori solo qualche giorno fa, è appartenuto a un migrante scomparso in mare lo scorso luglio. Nessuno sa chi fosse o da dove venisse. Solo si sa che il suo giubbotto è stato recuperato alla deriva nel Mediterraneo Centrale, il 3 luglio 2019, a determinate coordinate geografiche. Siamo di fronte ad un’altra morte causata dall’ingiustizia. Già, perché è l’ingiustizia che costringe molti migranti a lasciare le loro terre. È l’ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e a subire abusi e torture nei campi di detenzione. È l’ingiustizia che li respinge e li fa morire in mare.
Il giubbotto “veste” una croce in resina colorata, che vuole esprimere l’esperienza spirituale che ho potute cogliere dalle parole dei soccorritori. In Gesù Cristo la croce è fonte di salvezza, «stoltezza per quelli che si perdono – dice San Paolo –, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio» (1Cor 1,18). Nella tradizione cristiana la croce è simbolo di sofferenza e sacrificio e, al tempo stesso, di redenzione e di salvezza.
Questa croce è trasparente: essa si pone come sfida a guardare con maggiore attenzione e a cercare sempre la verità. La croce è luminescente: vuole rincuorare la nostra fede nella Risurrezione, il trionfo di Cristo sulla morte. Anche il migrante ignoto, morto con la speranza in una nuova vita, è partecipe di questa vittoria. I soccorritori mi hanno raccontato come stiano imparando l’umanità dalle persone che riescono a salvare. Mi hanno rivelato come in ogni missione riscoprano la bellezza di essere un’unica grande famiglia umana, unita nella fraternità universale.
Ho deciso di esporre qui questo giubbotto salvagente, “crocifisso” su questa croce, per ricordarci che dobbiamo tenere aperti gli occhi, tenere aperto il cuore, per ricordare a tutti l’impegno inderogabile di salvare ogni vita umana, un dovere morale che unisce credenti e non credenti.
Come possiamo non ascoltare il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile? Come possiamo rimanere indifferenti di fronte agli abusi e alle violenze di cui sono vittime innocenti, lasciandoli alle mercé di trafficanti senza scrupoli? Come possiamo “passare oltre”, come il sacerdote e il levita della parabola del Buon Samaritano (cfr Lc 10,31-32), facendoci così responsabili della loro morte? La nostra ignavia è peccato!
Ringrazio il Signore per tutti coloro che hanno deciso di non restare indifferenti e si prodigano a soccorrere il malcapitato, senza farsi troppe domande sul come o sul perché il povero mezzo morto sia finito sulla loro strada. Non è bloccando le loro imbarcazioni che si risolve il problema. Bisogna impegnarsi seriamente a svuotare i campi di detenzione in Libia, valutando e attuando tutte le soluzioni possibili.
Bisogna denunciare e perseguire i trafficanti che sfruttano e maltrattano i migranti, senza timore di rivelare connivenze e complicità con le istituzioni. Bisogna mettere da parte gli interessi economici perché al centro ci sia la persona, ogni persona, la cui vita e dignità sono preziose agli occhi di Dio. Bisogna soccorrere e salvare, perché siamo tutti responsabili della vita del nostro prossimo, e il Signore ce ne chiederà conto al momento del giudizio. Grazie.
Adesso, guardando questo giubbotto e guardando la croce, ognuno in silenzio preghi.
Il Signore benedica tutti voi.