Avellino

Eravamo agli ultimi colpi di coda di un tempo di cui non si poteva avere nostalgia. Per il vero cambiamento bisognava attendere la completa estinzione di tre generazioni di parassiti politici e di altrettante schiere di sedicenti intellettuali, cyborg del pensiero che si attivavano con telecomando a distanza.

Stefano Caldoro, come il beato Giulio, era stato esumato dopo cinque anni di riflessioni e ascesi. Era subito entrato in modalità campagna elettorale. A tutti prospettava soluzioni, a tutti sorrideva stringendo mani. Solo che erano fantasmi quelli che lui vedeva. Nella realtà, Carfagna, De Siano e Martusciello, ognuno per la propria truculenza, avevano fatto terra bruciata. Gli amici, seguendo i voti, erano altrove.

A Vincenzo De Luca, reuccio di un eden perfetto e compiuto, bastava un cenno e tutt'intorno spuntavano adoranti liste elettorali.

Si assisteva a salti della quaglia e capitomboli mai visti. Tante erano le giravolte che persino gli avversari di sempre si erano ritrovati bocca a bocca. Come Clemente Mastella e Umberto Del Basso De Caro, che il destino aveva diviso su palazzo Mosti ma insieme schierato per palazzo Santa Lucia, con grande imbarazzo del Pd, che in consiglio s'era ritrovato uno e trino, pardon: chino.

Ma il vero Cirque du Soleil andava in scena su Avellino. C'era un capocomico, Aldo Cennamo, mandato da Roma per mettere ordine, dopo tre anni di tarantelle stonate, tra un rinvio e un nulla di fatto, s'era rimbambito. Non sapeva più perché era arrivato. Più di tutto gli pesava non ricordare “chi” l'aveva mandato.

Poi c'era un capogiullare, l'incredibile Leo Annunziata. S'era presentato battendo i pugni sulle scrivanie, ma niente aveva capito e nulla aveva azzeccato. Da decisionista puro, aveva rimesso ogni scelta nella mani dello smemorato Cennamo.

Poi c'erano i capibastone, ognuno con i propri bertoldini al seguito. Chi si proponeva. Chi si autocandidava. Chi si alleava: De Luca, Ciampi, Paladino, Petracca, Petitto. Dopo averle armate di palette e secchielli, donna Rosetta D'Amelio aveva ordinato a tutte le truppe di scavare buche e alzare torri di sabbia. Si preparava allo scontro finale. Sempre tra i generali, combatteva da due secoli. In principio era nel Pci contro De Mita. Poi era passata nel Pd con De Mita. Ora le bastava stare a cavallo aspettando che De Mita le spiegasse chi fossero i nemici.

Come nell'Apocalisse, tutti si vestivano da cavalieri perché avevano qualcosa da difendere: commare, affarucci e potecarelle.

Persino la Lega, nonostante la precipitosa fuga dal consiglio per “sopravvenuti impegni” (come un presagio dei brutti venti che di lì a poco avrebbero travolto Sabino Morano e Damiano Genovese), adesso aveva riaffidato a Maria D'Agostino i 6X3 di piazza Macello. La Bianca, approfittando di un supersconto con i punti Ipercoop, vent'anni prima ne aveva fatto stampare migliaia e li aveva usati per le Politiche 2001. Poi li aveva aggiustati per le Europee 2004. Poi li aveva rivisti per le Regionali 2005. Quindi li aveva restaurati per le Comunali. E così via. Più del botulino, era stato Photoshop a proporla eterna diciottenne: una Stuarda dei kebabbari.

Ma il vero spettacolo era la comica finale della Santaniello, diventata dirigente a sua insaputa. Infatti, niente aveva visto e di niente si era occupata. E quando lo spiegava tutti ridevano a crepapelle. Era lei la vera reginetta di tutto il cucuzzaro.