Anche noi eravamo in bianco e nero. Oggi, cinquant'anni fa. Così com’era la televisione e la qualità di quello che trasmetteva. Prendete un video, fatelo attraversare da bande nere, sfocatelo ai bordi come scrutare da un fondo di bottiglia, immaginate un audio gracchiante, senza toni alti, lontano: ecco, siete negli anni '70 e quello passava il convento. La timbrica di Nicolò Carosio, assoluto re del racconto per immagini, era l'unica carezza di quel mondo alieno che miracolosamente a noi arrivava "via satellite".
Per capire cosa è stata Italia-Germania, semifinale di Mexico ’70, nell’immaginario di un ragazzetto di 9 anni bisognerebbe pensare a un evento casuale che accade una sola volta nella vita, con quelle modalità e con quella intensità. Non storico e annunciato come pure era stato l'anno prima assistere allo sbarco sullo luna. Quelli erano americani e l'emozione era per l'umanità.
Lì e per la prima volta in un mondiale di calcio, una sfida che entra nei libri di storia, meritandosi una voce, una citazione, mischiata alle grandi conquiste, alle scoperte, a guerre e uomini diventati re e re rivelatasi uomini piccoli piccoli.
E non c’è niente di sbagliato nella targa che all’ingresso dello stadio Azteca ricorda come quel 4 a 3 sia “la partita di calcio più bella di tutti i tempi”, perché è vero. Nessuno, o pochi, ricordano il 4 a 1 rifilato a quella stessa Italia dal Brasile di Pelè: formazione sontuosa. Uomini veloci come antilopi e spietati come predatori, stellari rispetto a quella Italia. Loro erano giganti del calcio, ma gli azzurri fecero l'impresa.
La finta di Gianni Rivera, vista e rivista con la “R” nel cerchio lampeggiante in alto, in un angolo dello schermo, è stata come assistere alla nascita di un verso di Montale, o a una correzione su tela del Merisi, poesia e genio, come l’intuizione di Oscar D’Agostino davanti al secchio della donna delle pulizie e la scoperta della chimica che condizionava gli atomi: grazie a quell’acqua sporca Fermi e i ragazzi di via Panisperna entrarono nel mito.
Rivera lasciò da una parte tutti quelli che seguivano la normale fisica dei corpi e della dinamica, i suoi e i loro, e la palla dall’altra parte, nell’unico esile corridoio quantistico che il destino gli aveva riservato, a lui e soltanto a lui, tra i pali di Mayer. Poi fu l’apoteosi. E dal civico 20 di via Tuoro Cappuccini (come da ogni angolo del paese) partì un camioncino giallo del caffé Bourbon, solo arcaici radicati nel secolo scorso possono sapere, che fu da preludio a scene di giubilo irripetibili, ma inchiodate dal lato buono dei ricordi.