Il 20 giugno del 1992, meno di un mese dopo la strage di Capaci e poco prima quella di via D’Amelio, una fiaccolata fu organizzata per mostrare che Palermo, che la Sicilia e che l’Italia tutta aveva voglia di non far finta di nulla. Le strade furono invase da migliaia di persone e Palermo dimostrò che a lottare contro la mafia c’era un popolo stanco, orgoglioso e coraggioso. Nelle strade anche il giudice Paolo Borsellino e Rosa Costa, la moglie dell’agente Vito Schifani ucciso nella strage di Capaci, la donna che per anni con il suo grido “io vi perdono” rappresentare l’Italia ferita degli anni ’90. 

Quella sera Paolo Borsellino tenne un discorso nel quale ricorda l’amico fatto saltare in aria. La sue parole non avevano nulla di rassegnato, non erano le parole di paura di chi è condannato a morte. Le sue parole erano piene di speranza, di prospettiva, di tensione verso il futuro. Borsellino chiese alla piazza, a Palermo e al Paese di ricordare Falcone continuando la sua opera contro la mafia. Nell'agire come Givoanni Falcone si dimostrava “a noi stessi e al mondo che Falcone È VIVO!

 

“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la Mafia, lo avrebbe un giorno ucciso.
Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua morte.
Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte.
Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone l’estremo pericolo che egli correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva.
Perché non è fuggito; perché ha accettato questa tremenda situazione; perché non si è turbato; perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? PER AMORE!
La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo, ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.
Lavorare a Palermo, da magistrato, e con questo intento, fu sempre, fin dall’inizio, nei propositi di Giovanni Falcone anche durante le sue peregrinazioni professionali nell’est e nell’ovest della Sicilia. Qui era lo scopo della sua vita e qui si preparava ad arrivare per riuscire a cambiare qualcosa. Qui ci preparavamo ad arrivare e ci arrivammo dopo un lungo esilio provinciale proprio quando la forza mafiosa, a lungo trascurata e sottovalutata, esplodeva nella sua più terrificante potenza: morti ogni giorno, Basile, Costa, Chinnici, Dalla Chiesa e tanti altri.
E qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma perché consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno, di ogni cittadino. La lotta alla mafia (il primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte, proprio perché meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col male, le più adatte cioè, queste giovani generazioni, a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone, e ti tutti quelli che lo affiancavamo, quando, in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”.
E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice (questa affermazione l’ha fatta anche il giudice Di Pietro a Milano), significava di più, significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza della mafia.
Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco perché ben presto sopravvenne quasi il fastidio, l’insofferenza al prezzo che la lotta alla mafia, doveva essere pagato dalla cittadinanza.
Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare a sua volta provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia: il nuovo codice di procedura penale. Adesso hanno fornito un alibi, dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso, di lotta alla mafia non ha voluto o non ha più voluto occuparsene.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì, ma cercò di ricreare altrove, le ottimale condizioni del suo lavoro.
Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Non è vero! Pochi di mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il suo lavoro di 10 anni.
Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. In condizioni ottimali. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato.
Morì, è morto insieme a sua moglie e agli agenti della scorta e allora tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato e talora odiato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia, ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta.
La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora. Molti cittadini, ed è la prima volta che avviene, collaborano con la giustizia.
Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, almeno con la modifica di alcune norme paralizzanti del codice di procedura penale. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso a questa morte di Falcone, a questa morte di sua moglie, a questa morte degli uomini della sua scorta.
Sono morti tutti per noi, e abbiamo un grosso debito verso di loro e questo debito dobbiamo pagarlo, gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia, accettando in pieno queste gravose e bellissime verità: dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone È VIVO!»