Ci sono punti oscuri della nostra storia nazionale. Punti con i quali l’Italia avrebbe il dovere di fare i conti per riuscire a costruire un futuro vero e condiviso. Su quei punti fondamentali, che spesso hanno segnato il corso della storia italiana è stata costruita una nebbia tanto fitta quanto artificiale, fatta di misteri, di verità appurate e mai dette, di insabbiamenti, di sabotaggi, di depistaggi. Tornano sempre utili, nella scoperta e nel racconto della storia italiana, le parole scritte da Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974 “Io so. Ma non ho le prove”.

Il 23 maggio del 1992, 28 anni fa, alle 17:57 la mafia con 400kg di esplosivo fece saltare in aria un tratto di autostrada sul quale stava passando il giudice Giovanni Falcone. Una strage. L’uomo della lotta alla mafia viene ucciso insieme alla moglie, Francesca Morvillo, e agli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro

Quella giornata con quelle immagini della terra sventrata sono entrate nell’immaginario collettivo, hanno devastato l’animo degli italiani e hanno fatto di Falcone un’icona non solo della lotta alla mafia, ma della legalità, della giustizia, l’icona di uno Stato che non si piega. L’immagine di un uomo disposto a tutto pur di non accettare un compromesso con la criminalità, è diventata l’immagine di una parte di Italia che non ci stava a girare lo sguardo dall'altra parte, a soccombere, a far finta di niente. 

Quella strage non fu l’ultima e poco dopo toccherà a Paolo Borsellino essere sacrificato sull’altare degli eroi. Gli stessi misteri, le stesse mani, le stesse menti che hanno organizzato la strage di Capaci, architettarono la strage di via D’Amelia nel luglio dello stesso anno, con la quale fecero saltare in aria il giudice Borsellino.

Oggi quella storia è ancora avvolta dal mistero e in maniera sempre più chiara si iniziano a vedere le tipiche trame dei misteri all’italiana. I servizi segreti, “le menti raffinatissime e intelligentissime” che secondo Falcone erano dietro il primo attentato fallito al giudice all’Addaura, sono chiaramente dietro quello riuscito di Capaci. 

All’Addaura il 21 giugno del 1989, ci avevano già provato a far saltare in aria Falcone. L’attentato però fallisce e da lì si apre una strana crepa in una storia che mostra come pezzi dello stato agivano in coordinamento con pezzi di Cosa Nostra. Proprio come nelle altri stragi italiane, da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, passando per l’Italicus e la stazione di Bologna, parti dello stato hanno tramato contro la giustizia, contro la democrazia, contro i cittadini e contro lo Stato stesso.

La storia di Falcone ci racconta quello che molti non vogliono sentire, ci dice con chiarezza che la mafia, la criminalità organizzata in generale, può essere sconfitta e non servono eroi da sacrificare ma unità da parte di uno Stato che invece troppe volte ha combattuto su due fronti. 

Oggi ricordare le parole del giudice serve, e rivivere la sua storia è fondamentale per stracciare quel velo di ipocrisia, bugia e depistaggio che ancora oggi esiste. Giovanni Falcone e tutti coloro che sono stati uccisi dalle mafie ancora oggi non trovano pace. Le loro storie non sono finite, non hanno ancora trovato una verità condivisa. Su queste storie spezzate e nascoste si fonda la nostra Repubblica, che oggi vive di nebbie, di ricostruzioni farlocche e di verità mai appurate. 

“Io so. Ma non ho le prove”, anche questa volta, lo sappiamo, sappiamo chi ha tramato, chi ha indirizzato, chi ha deciso e chi ha fatto di un uomo attivo e propulsivo, un eroe morto. Lo sappiamo e forse, come al solito, non avremo mai le prove.