39 anni sono passati da quella sera di novembre che ha sconvolto comunità intere, che ha portato morte, distruzione e visibilità in quelle terre di cui molti neanche sapevano dell’esistenza.

Ha ancora senso ricordare oggi dopo 39 anni? Sicuramente non ha alcun senso fare ciò che per troppi anni abbiamo fatto.

Non ha alcun senso fermarsi alla commemorazione, alle parole di cordoglio, alle pietà religiose. Perché così facendo abbiamo confinato quel 23 novembre e i processi che ha innescato ad un mero evento locale, riducendolo ad un intimo ricordo di ogni comunità che ogni anno la sera del 23 novembre si stringe attorno a migliaia di dolori individuali.
Eppure quell’evento non può rimanere legato ai singoli, è un argomento tutt’altro che locale, una calamità naturale prima e umana poi che ha dimensioni epocali. Quel terremoto fece scricchiolare i poteri centrali e le incrostazioni clientelari che li avvolgevano, svelò al mondo intero il disagio e l’abbandono che le zone interne del Meridione vivevano. Fu la dimostrazione fisica che Cristo era ancora fermo ad Eboli.
Basta ricordare i volontari arrivati da mezzo mondo, gli aiuti giunsero da ovunque, i giornalisti e gli artisti dell’intero globo attenti a quel pezzettino di Italia che si ritrovò a vivere un protagonismo al quale non era affatto abituata. Quei paesi che fino al 23 novembre del 1980 non erano neanche segnati sulle mappe ufficiali, diventarono famosi, entrando da protagonisti nel sistema globale dell’informazione, senza mediazioni, in maniera violenta e fulminea.

Antonio Ghirelli sul Corriere della Sera scrisse. “Quando le povere vittime saranno sepolte e i colpevoli avranno pagato, il problema del terremoto, e del Mezzogiorno nel suo complesso, rimarrà per lungo tempo all’ordine del giorno. Alle 19:34 del 23 novembre, la terra non ha tremato soltanto per i derelitti della Campania e della Lucania. La terra ha tremato e continuerà a tremare, per tutti noi, governanti e governati, ladri ed onesti. La storia italiana è cambiata radicalmente e brutalmente la sera del 23 novembre. Più presto ce ne persuadiamo, meno alto e doloroso sarà il prezzo che pagheremo“.

Oggi a 39 anni da quella sera possiamo avere la certezza che non abbiamo ancora fatto i conti con la storia e che il prezzo pagato e che continuiamo a pagare è altissimo. Ce lo dicono i dati demografici dei paesi del cratere che stanno scomparendo silenziosamente. Lo vediamo nei borghi vuoti, dove si contano solo i morti e mancano i nati. 
Quelle comunità che allora erano straziate lo sono ancora oggi. Eppure nel post-terremoto, dalla ricostruzione alle “fabbriche in montagna”, quei territori furono illusi da una promessa di sviluppo e di ricchezza che non si è mai concretizzata

Negli anni ci sono sono state le nuove vittime. Tutti quei giovani scappati perché senza prospettive, che hanno dovuto abbandonare una terra che dopo la scossa del 23 novembre è rimasta immobile in un presente tanto precario quanto perenne.

Le vittime di quella sera sono state seppellite, le vittime degli anni seguenti ancora vagano in cerca di un futuro. I colpevoli invece non hanno mai pagato. 

Era allora Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini, un uomo meraviglioso, di quelli che l’Italia dovrebbe ancora oggi ammirare e tenere come esempio, che al suo ritorno dal cratere, rientrato a Roma, sentì l’esigenza di parlare, il bisogno di sfogare quella rabbia che gli aveva riempito l’animo nel vedere quei paesi, nel sentire le storie dei sopravvissuti, di chi era stato abbandonato senza soccorsi per giorni, di quelli che avevano dovuto, da soli, scavare a mani nude. Il 26 novembre Pertini terrà un discorso televisivo che passerà alla storia come il suo “drammatico j’accuse“, nel quale con uno sguardo severo e con parole durissime sferrò un attacco potentissimo al governo per i ritardi e lanciò un avvertimento al mondo politico perché non si ripetesse la situazione del Belice.
Il giorno seguente, il 27 novembre, il ministro degli Interni democristiano, Rognoni si dimise. Errico Berlinguer da Salerno, dopo aver visitato il cratere dichiarerò finito il compromesso storico tra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. Il sisma non aveva solo distrutto l’Irpina, aveva scosso lo Stato e la politica italiana alle sue fondamenta.

Si contarono circa 2.914 morti, 8.848 feriti, 280.000 sfollati. La tragedia sembrò però mostrare un risvolto positivo, lo scandalo, la rabbia e l’indignazione levatasi nei confronti del sistema politico ed istituzionale divenne troppo forte per essere ignorata. Ancora Ghirelli, annusando il sentimento nazionale scrisse sul Corriere “Nulla dovrà restare come prima“. Il cambiamento stava diventando una realtà tangibile. Nasceva in tutta Italia, proprio sulle macerie irpine, un nuovo sentimento nazionale e civico.

Uomini e donne, per la maggior parte ragazzi, arrivarono da tutta Europa per dare una mano, per scavare, per ricostruire, semplicemente per tornare a far vivere una parte d’Italia che stavano scoprendo. 
Sull’onda di questo nuovo protagonismo civile nacquero i comitati popolari, soggetti nuovi e partecipati che provarono ad essere protagonisti dei processi che avrebbero voluto governare dal basso, nel tentativo ingenuo e giovane di sperimentare un metodo di partecipazione politica nuovo. 
In realtà i fondi arrivarono come una valanga sui territori terremotati, una valanga che ingrosso i vecchi gruppi di potere e infittì la rete clientelare sulla quale questi poggiavano. 

La Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo fiutò l’affare, ed i vari amministratori locali si lanciarono in quello che stava per diventare il più grande affare del secolo.
Il caso dell’assessore regionale Ciro Cirillo fu l’esempio chiaro di ciò che il terremoto aveva rivitalizzato. Quello strano mondo fatto di affari, politica e criminalità si cibò dei fondi della ricostruzione. Il potente assessore democristiano, che avrebbe deciso le assegnazioni dei fondi per il terremoto, fu rapito dalle Brigate Rosse e rilasciato dopo una strana trattativa nella quale furono coinvolti camorristi, servizi segreti, faccendieri, politici e alte cariche dello stato. Una storia nella quale compaiono personaggi come Francesco Pazienza, agente segreto che contattò Cutolo tramite il camorrista e braccio destro del boss della NCO, Vincenzo Casillo, morto in circostanze misteriose, il 28 gennaio 1983 a Roma a poca distanza dalla sede del SISMI e con in tasca il tesserino dei servizi segreti. 

Dopo svariati decreti legge, il numero dei comuni inseriti tra quelli colpiti dal terremoto lievitò fino a 687, comprendendo un’area geografica che a nord toccava Teano, a sud chiudeva con Sapri e ad est includeva Ferrandina.
I fondi arrivarono, la legge n. 219 del 24 maggio 1981, ancora oggi uno delle maggiori fonti di finanziamento delle opere comunali in molti paesi del cratere, diede le possibilità a chiunque di poter fare domanda per la concessione di finanziamento. Furono presentate 474.583 domande, una cifra esorbitante, gran parte dei contributi erogati finirono in parcelle di tecnici progettisti, i quali spesso erano anche membri delle commissioni istituite dai comuni per approvare i progetti, almeno 15.000 miliardi di lire di fondi per la ricostruzione furono spesi in parcelle professionali

L’art. 21 della legge 219, face partire il progetto di sviluppo che il commissario straordinario Zamberletti definì come la realizzazione del sogno di portare le “industrie in montagna“. Quelle aree industriali, sorte sull’onda di quel sogno, oggi sono per la maggior parte deserte. Nel tempo si sono trasformate nelle cicatrici storiche, ambientali, sociali ed economiche dei nostri paesaggi.
Furono scelte 20 aree per la realizzazione di nuovi stabilimenti, 12 di queste in Campania di cui 8 in Irpinia. Nell’ottica che ogni notabile locale dovesse espandere e rafforzare la propria rete di consenso, si cercò di puntare sui numeri. 

Il ricordo di quella terribile sera, di quei pochi minuti che sconvolsero la storia non può essere cancellato. In ogni paese del cratere il 23 novembre, tutti, anche i bambini, sente la particolare tensione di questa giornata.
Nei racconti di intere comunità esiste un prima ed un dopo, a dimostrazione di una frattura storica riconosciuta e interiorizzata da una vasta comunità.
Per decenni i paesi, i luoghi, le persone e le vite sono state provvisori, sospesi in luoghi inventati, in piazze prefabbricate, in realtà urbane e geografiche destinate ad essere smontate a non esistere più. 

Tenere vivo il ricordo è fondamentale ma è giunto forse il tempo di iniziare a fare un’analisi profonda di ciò che è successo. 
Oggi che l’Irpina vive ancora una volta sull’orlo del baratro, oggi che interi paesi scompaiono senza finire sui giornali, oggi che il futuro non si riesce più ad immaginare, ragionare sul passato, trasformando quell’evento in storia condivisa, è il primo passo per ridare a quei territori interni la possibilità di avere ancora un senso geografico, sociale, economico, politico ma soprattutto umano.