Bruno Trentin rappresenta una delle figure più originali e affascinanti della politica italiana del ‘900. Un uomo che è stato capace di vivere più vite in una. Partigiano, intellettuale, sindacalista, politico. Una mente capace di guardare con uno sguardo sempre moderno e sempre rivolto al futuro il mondo. Un intellettuale, un sindacalista e un politico che ha sempre letto con sensibilità e intelligenza il presente senza preconcetti e chiusure ideologiche.
Trentin è stato segretario della FIOM dal 1962 al 1977, negli anni delle grandi lotte operaie, durante quel ’69 che rappresenta nella storia un momento di conquiste fondamentali per i lavoratori. Dal 1988 al 1992 fu Segretario Generale della CGIL, erano anni difficili, il mondo cambiava in maniera veloce, le grandi ideologie non erano più capaci di interpretare l’attualità e il neoliberismo stava debordando in tutto l’occidente, mettendo in dubbio e cancellando quei diritti che erano stai conquistati dai lavoratori nei decenni precedenti.
Il suo impegno istituzionale, prima con il Partito Comunista e poi con i Democratici di Sinistra, si è sempre accompagnato allo studio delle domeniche del mercato del lavoro e all’azione concreta per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori.
Il discorso che tenne a Pesaro al secondo congresso dei Democratici di Sinistra nel novembre del 2001, assume oggi, a 12 anni dalla sua morte (23 agosto 2007), un valore importante perché ci si leggono tutte le dinamiche dei nostri giorni, la critica al precariato, l’analisi delle fratture nel fronte dei lavoratori, le contraddizioni della globalizzazione, la critica al neoliberismo, la voglia di ricostruire un nuovo fronte largo e unito per ridare dignità e forza ai lavoratori.
“Dopo un dibattito certo ricco che partiva da tre mozioni immodificabili e incomunicabili e che ci ha trovato inevitabilmente divisi, ma preoccupati di trovare alcuni punti comuni di riferimento – come la repulsa del neoliberismo autoritario negatore della società civile o come il posto ed il ruolo del lavoro – forse ora esiste la possibilità di proiettare la nostra ricerca, senza schieramenti precostituiti, verso il presente e verso il futuro, difronte alle sfide che stanno davanti a noi e non alle nostre spalle. Non sto proponendo pasticci ecumenici ma di mettere alla prova la nostra capacità di compiere scelte impegnative, di definire priorità vincolanti con la partecipazione critica di tutti, nel nostro partito e nella coalizione in cui militiamo. Dopo il cambiamento epocale della situazione mondiale, dopo la tragedia dell’11 settembre, è possibile mantenere ancora fra noi il discrimine sterile sulla sospensione o meno dei bombardamenti, difronte ad una trama terroristica che assume anch’essa una dimensione mondiale? O non dovrebbe, piuttosto, essere compito nostro, il definire una strategia che faccia dell’Unione Europea un soggetto politico di dimensione mondiale, anche nella lotta al terrorismo? Per esempio, superando la penosa dislocazione dei governi europei in una rincorsa in ordine sparso ver- so la benevolenza del governo americano e costruendo, invece, con pervicacia una iniziativa unitaria dell’Unione Europea per gettare le basi, attraverso una Conferenza Internazionale di una soluzione rapida della questione palestinese con il riconoscimento di uno Stato sovrano, fondato sull’unità e la continuità territoriale della Palestina, e su un progetto di cooperazione economico, finanziato dall’Europa, fra lo Stato Palestinese, lo Stato Sovrano di Israele. E, in questo modo, colpendo al cuore la radice di umiliazione e disperazione sulla quale il terrorismo assassino tenta di costruire la sua egemonia su un universo di emarginati. Per esempio, sostenendo una battaglia per la riforma istituzionale dell’Unione Europea verso una Federazione di Stati nazioni – meglio tardi che mai se come partito e non come singoli compiamo questa scelta senza più indugi, e reticenze soprattutto dopo le chiare parole del Presidente Ciampi – con iniziative forti per dare sostanza, corpo alla formazione di un’Europa capace di parlare con una sola voce e di agire come un soggetto politico unitario. Nella costruzione di un governo economico dell’Europa monetaria, capace di imprimere un nuovo corso alla crescita economica e un miglioramento qualitativo dell’occupazione; nell’adozione di forme di cooperazione avanzata in Europa, fra gli Stati e regioni che vogliono davvero cimentarsi con i problemi la cui mancata soluzione segna il ritardo dell’Europa – non parliamo dell’Italia – nella sfida competitiva che accompagna la globalizzazione: la ricerca l’innovazione la formazione lungo tutto l’arco della vita, le grandi infrastrutture della comunicazione nell’assunzione di un ruolo europeo e di una soluzione europea nella risposta alla sfida della globalizzazione, dopo avere colpito, per i paesi dell’Unione monetaria le forme di speculazione a breve termine sul tasso di cambio; superando, cioè, prima di tutto in Europa ogni forma di protezionismo nei confronti delle merci industriali e agricole che provengono dai pesi più poveri; annullando il debito di questi paesi; contrastando ogni violazione dei diritti umani e dei diritti del lavoro, prima di tutto da parte delle multinazionali che hanno una sede in Europa o delle loro succursali; stabilendo, come Unione Europa, accordi di lunga durata i paesi produttori di materie prime, cominciando dai produttori di petrolio, per garantire risorse sicure a quei paesi e liberare i paesi dell’Unione Europea dal «ricatto petrolifero». E per quando riguarda la società italiana, si tratta di trarre tutte le conseguenze di una riaffermata centralità del lavoro e dei lavori, come fattori di identità per un numero sempre più grande di persone, di donne e di uomini e, particolarmente per quanti si dedicano a nuove attività professionali qualificate. Su questo punto Piero Fassino ha dato un contributo importante. Questo vuol dire emanciparci sia da una cultura, sempre perdente, della resistenza al cambiamento, sia dall’egemonia delle culture neoliberali della flessibilità, come via all’occupazione che ha penetrato a volte nelle nostre fila. La flessibilità del lavoro è certamente un portato delle nuove tecnologie, con le quali fare i conti. Ma la sua diffusione – senza un governo consapevole del cambiamento – non cambia in nulla il problema dell’occupazione come l’abbiamo documentato dati alla mano e può, invece, più facilmente emarginare milioni di persone da un’attività lavorativa professionalmente valida e fare pesare sull’intero mondo del lavoro e sui singoli lavoratori la spada di Damocle della perdita, in qualsiasi momento, del posto di lavoro, dell’attacco al diritto di sciopero. Questo vuol dire, infatti, la precarizzazione del lavoro. Ecco allora la centralità di una battaglia che faccia della Ricerca dell’Innovazione e della Formazione lungo tutto l’arco della vita, finanziata e controllata non solo dallo Stato, dalla Comunità Europea e dall’impresa ma anche dai lavoratori; se questa diventa, assieme alla riforma degli ordinamenti scolastici e dei sistemi di formazione per i giovani, gli adulti, gli anziani e gli immigrati, la grande e costosa priorità della politica economica e sociale di un governo riformatore. Una priorità per la quale combattere sin da ora, come forza di opposizione con un’autonoma cultura di governo; sia, a mio avviso, come sindacato nella contrattazione collettiva. L’occupabilità attraverso la ricerca e la formazione – soprattutto a favore dei soggetti meno tutelati – non è soltanto, in queste condizioni, un problema rilevante di politica ridistribuiva è la strada obbligata alla piena occupazione alternativa in molti casi, ad una riduzione indiscriminata delle imposte; ma il perno di una riforma del Welfare State che consenta alle società europee di misurarsi, attraverso il lavoro, con la sfida dell’invecchiamento della popolazione, per respingere nuovi attacchi alle pensioni e per consentire di fare fronte ai nuovi bisogni delle generazioni più anziane. E diventa al tempo stesso una grande battaglia di libertà così come sono state tutte le battaglie per il controllo e la padronanza della conoscenza, per la partecipazione informata alle decisioni dell’impresa. Una grande battaglia di libertà contro gli intenti restauratori e autoritari che si esprimono con l’attacco della Confindustria e del suo governo allo stato dei diritti dei lavoratori. Il ruolo che assume, oggi più di ieri – su questo punto bisogna essere chiari – la lotta per difendere l’articolo 18 sui licenziamenti individuali, in una strategia dell’occupazione, del miglioramento della qualità del lavoro, del controllo sull’organizzazione del lavoro e del tempo, non può essere quello di limitarsi alla difesa dei cosiddetti garantiti. No, si tratta di garantire la certezza del contratto, prima di tutto, particolarmente nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, a part-time e della massa dei lavoratori parasubordinati o semi-autonomi senza sicurezza sociale. Questo afferma la carta europea dei diritti fondamentali: per impedire che la sorte delle persone, in un mercato del lavoro sempre più diversificato, sia consegnata, in assenza di colpe gravi e con una piccola multa, alla discrezionalità o agli umori antisindacali degli imprenditori. Una grande battaglia di libertà, dunque, che costituisce a mio avviso, un’al- tra faccia della nostra battaglia per conquistare pienamente in questo paese uno stato di diritto che altri vogliono insidiare dalle fondamenta. Su questi obiettivi, concreti – e scusatemi se vi annoio di contenuti – sul diritto alla formazione permanente, all’informazione, alla certezza del contratto e su quello della conquista di un diritto alla rappresentanza dei lavoratori, che consenta anche qui di ridare certezza alla contrattazione collettiva, la Sinistra italiana ed il Sindacato potranno riconquistare i suoi titoli di nobiltà. Lo sciopero dei metalmeccanici e la grande manifestazione di Roma hanno un senso se costituiranno una tappa verso la ricostruzione di un grande fronte unito che espanda le frontiere sulla libertà anche nei luoghi di lavoro. La risposta delle tre confederazioni all’attacco all’articolo 18 dimostra che ne esistono le condizioni. Assumere questi obiettivi come alcune delle priorità ineludibili di una forza riformatrice con ambizioni europee, può sembrare ad alcuni un possibile elenco della spesa da fare valere come accessorio in un generico programma da dimenticare il giorno dopo, come sino ad ora è stato. E quindi, si pensa a queste o ad altre scelte progettuali che dovremo cercare di costruire insieme, come qualcosa di utile, certo, ma che è altro dalla grande politica, dal dibattito sul futuro dell’Ulivo, sul futuro della Sinistra italiana come parte del movimento socialista europeo, sul tipo di unità da costruire nel nostro partito, superando ogni patriottismo di correnti o di cordate, sul dibattito aspro che divide, in questi mesi, il movimento sindacale italiano. Ma non è così. L’esperienza ci ha dimostrato in abbondanza, che se un movimento, un’alleanza, una coalizione rimane ferma nella difesa delle proprie conquiste e delle proprie identità, contro chi intende cancellare con una precisa strategia politica; se un’alleanza o un partito o un sindacato si arroccano sulla difensiva, dedicandosi, nello stesso tempo, alla difficile impresa della salvaguardia degli equilibri interni, della difesa di vecchie regole consociative di direzione, la divisione è alle porte. E ci sarà sempre la divisione fra chi pensa di potere concedere di più all’avversario per non farsi isolare e chi pensa, che non ci sia salvezza fuori dalla difesa intransigente dell’esistente. Una lunga e difficile storia ci ha, invece, dimostrato che le alleanze, le coalizioni e la stessa unità di un partito o l’unità di un movimento sindacale o lo stesso dialogo con un movimento complesso come i no global o i new global come speriamo si costruiscono giorno per giorno intorno ad un progetto, al dibattito trasparente che può nascere da una proposta di cambiamento che rifiuti di annegare sul mito poco riformista della governabilità. E qui scontiamo ancora il limite e l’anomalia della cultura politica di molta parte della sinistra italiana. La debolezza o l’uso pienamente strumentale di una cultura del progetto. Dividendoci, e se occorre nella fase di costruzione di un progetto, aprendo il confronto fuori dalle nostre file, senza alcuna logica di potenza o tentazioni egemoniche, saremo molto più vicini ad una unità e ad una solidarietà fra diversi ad un partito pluralista e culturalmente autonomo, capace di dialogare senza arroganze e senza mimetismi con le forze della società civile. Lì, dove avvengono i cambiamenti più profondi di un paese e di un popolo, lì dove maturano problemi che attendono dalla politica progettuale e non dal piccolo cabotaggio più o meno corporativo, una risposta e una soluzione.