“IL RACCONTO DEI RACCONTI”. Tre racconti tratti dall’opera di Giovanbattista Basile, “Lo cunto de li cunti”, pubblicata postuma tra il 1634 e il 1636, e messi in scena dal regista, con opportuni miscelamenti e contaminazioni. “La vecchia scorticata” (diventato nel film “Le due vecchie”), “La cerva fatata” (nel film “La Regina”), “La Pulce”, rimasto identico. Non è semplice, né agevole confrontarsi con un testo letterario così compatto e particolare. Scritto in un napoletano corposo, letterariamente e linguisticamente assai denso e consapevole, benché abbia nel suo sottotitolo (“ovvero lo tratteniemento de piccirille”) un’indicazione di pubblico in parte vera , ma fuorviante e parziale, si avvia oggi a essere considerato uno dei classici di riferimento dell’intero 600 italiano.
Nei suoi 50 racconti, ma le vicende si “innestano”, si moltiplicano e si dipanano l’una dentro l’altra come nelle “Mille e una notte”, ha praticamente creato tutto l’immaginario fiabesco dell’Europa continentale: di fatto tutti gli scrittori stranieri di favole, da Perrault ai Grimm, si sono ispirati, in epoche diverse, al nostro conterraneo, da noi pressoché sconosciuto. Escludendo B. Croce che gli diede l’attenzione che meritava: ma la sua fu considerata erroneamente non la scoperta di un raffinato critico, ma l’arida dissezione filologica di un pedante erudito.
Qual è stato l’approccio narrativo-visuale del regista e sceneggiatore, nonché produttore del film (ITA-FRA, 15), Matteo Garrone? Lui e i suoi cosceneggiatori (Eduardo Albinati e i bravi e già con lui sperimentati Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) hanno, per così dire, affrontato la materia direttamente; sviluppandola in forme di realismo descrittivo, all’apparenza elementari e d’immediata comprensione. Una sorta di “concelebrazione” della genuinità evocativa: le figure favolistiche, più o meno fantastiche e orrorifiche ci appaiono così come, di volta in volta, vengono richiamate: il drago è il drago, l’orco è l’orco, ecc. Ma è una semplicità “abissale”.
Voglio dire: è talmente innestata di richiami ad essa strettamente connessi, da diventare di una strutturazione così complessa che noi siamo trasportati nel cuore di un mondo di fattualità, in cui niente è “falso”; in cui tutto è “chiamato”, indicato verbalmente come “vero” e lo diventa “per magia”. Ovvero è (popperianamente) “verificabile”: perché, come in ogni mondo fantastico che si rispetti, deve avere le sue rigorose “chiavi interpretative”. Ed esse sono quelle definite dal mutuo accordo di credibilità che passa tra lo scrittore e l’uditore/lettore. Perché tutti i “cunti” hanno, come le storie di Stephen King, una profonda valenza di oralità: come lo scrittore Usa, Basile è un affabulante storyteller. E Garrone “si è limitato” a dare un corpo “parlante”, attraverso l’immagine, a tutta questa lussureggiante ricchezza, di una bellezza lenta e tentacolare. Per affrontarla e venirne a capo ha perciò scelto un approccio freddo: un occhio attento e distaccato attraverso cui il meraviglioso divenisse “normalità”.
Ma è una normalità assolutamente “dirompente”, che costruisce con razionalità un mondo parallelo, rovesciato, perciò liberamente, festosamente e totalmente critico dell’ufficialità e delle sue ipocrite e oppressive istituzioni. Come quello di Basile, il suo è un universo narrativo ribelle e destabilizzatore. Che ci fa da guida nel mettere a nudo, attraverso il paradosso che diventa linearità simil-popolaresca, la stupidità dei regnanti, le loro ossessioni personali o meschine. E fare in modo che venissero nominate, innanzitutto; ma anche smascherate nei loro effetti perversi successivi, a volte imprevisti per noncuranza o egoismo, a volte programmati sui deboli.
Ma il grado di originalità espressiva di Garrone, e dei suoi collaboratori, è elevato: egli, come in “Gomorra” ha reinventato in chiave stilistica l’approccio mutuato dal cinema di realtà, qui , ha “storicizzato” realisticamente la fantasia. Perciò non è per nulla felliniano, come è stato detto: gli aspetti onirici, ad esempio, pur presenti, sono del tutto sotto controllo; perché sono incubi “realizzati”. Non a caso , egli ha citato il Monicelli di “L’Armata Brancaleone”, col suo realismo popolare dissacrante; ma non Pasolini, col suo realismo di ricerca sul futuro (mi riferisco al “Decamerone”).
E sono le passioni umane allo stato puro, nelle loro più istintiva e effettuale verità, trattate sotto forma di attive, pulsanti e pensanti metafore, le vere protagoniste del film. Esse ci circondano con la forza di incubi illustrati con chiarezza, talvolta ironica e talaltra crudele, ma sempre umana. In questo la foto, larvosa e pastosa, del grande Peter Suschitsky, di forte valore iconico, è stata un pregevolissimo supporto.
Ciccio Capozzi