Avellino

Non so. Mi sono perso più di cento passi fa.

Da qualche parte ci dev'essere stato un bivio con la strada giusta che non ho imboccato. Eppure, ci avevo creduto.

Io, come un condottiero, davanti quell'armata che cresceva a dismisura, di quartiere in quartiere, di paese in paese.

Io ero come El Cid Campeador, ero lì e li vedevo arrivare, aggregarsi, crederci. Più ne erano più cresceva il mio orgoglio, il mio potere: vedevo le stelle che da cinque erano diventate migliaia.

Ero tronfio, pieno di me: chiamatemi Rodrigo Díaz de Vivar, dicevo guardando tutti dall'alto in basso.

Io parlavo e gli altri correvano a eseguire. Per la prima volta in vita mia, qualcuno mi dava ascolto. Persino quando chiedevo manifesti 6X3 per fare liste di proscrizione, lasciate stare le sgrammaticature, mi accontentavano.

Certo, di tanto in tanto qualche scivolone m'era venuto facile: il finto allunaggio, i giorni occorsi per il Creato, i sondaggi lanciati per prendermi beffa di qualcuno per poi finire io spernacchiato. Peccati veniali.

Fino a che c'è stata l'apoteosi e, bomba o non bomba, noi, a Roma, ci siamo arrivati. In cinque.

Io, pensate: sottosegretario. Pure Andreotti ha iniziato così.

Poi il tradimento. Non so. Non ho capito. Mi sento come un pugile suonato. La mia città mi ha voltato le spalle. Da invincibile armata ci siamo trasformati in quattro amici al bar. Amici poi... proprio no. Quattro gatti, ecco... meglio. Io sono di nuovo quello che ero: solo e nessuno mi ascolta. Vorrei chiedere scusa ma sarebbe inutile.

Ero un pallone talmente gonfiato che, bucato dal voto, sono schizzato via.

Lontano. Lontanissimo. Fino alle stelle.

Le conto: uno, due, tre, quattro, cinque. Poi non ne vedo più.

Il mai vostro

Carletto