Avellino

Oggi avrebbe compiuto un secolo di vita Mario Monicelli, che cinque anni fa scelse tragicamente di lasciarci ma è più vivo che mai nella nostra memoria con la sua arte cinematografica e con la sua testimonianza di uomo libero, umile, coerente. Un'impronta incancellabile anche in Irpinia, terra che gli ha ispirato - come vedremo - almeno un paio di film e che lo ha costantemente apprezzato e sentito vicino.

 

I COMPAGNI SUL LACENO
Mai come quell’anno, il 1964, il “Laceno d’oro” per la miglior regia ha avuto un candidato unico e indiscusso: Mario Monicelli. Niente e nessuno, nella 6° edizione, avrebbe potuto dissuadere Camillo Marino, fondatore del Premio e marxista granitico, dall’invitare sull’altopiano di Bagnoli Irpino un regista che aveva appena diretto un film sulle origini del movimento operaio, per giunta intitolato I compagni; anche a costo – con una di quelle ingenue ma ardite forzature estetico-lessicali di cui era maestro – di ribattezzare “uno dei più coerenti continuatori del Neo-Realismo italiano nel Mondo", come si legge nella motivazione, colui che era, con Germi e Risi, l’alfiere di tutt’altro genere cinematografico, la “commedia all’italiana”, che il pubblico adorava mentre i “guru” della critica continuavano a snobbare.

Il film, poi – ammise con la proverbiale schiettezza lo stesso Monicelli, intervistato dal regista Michele Vietri per A chi tanto, a chi niente, dedicato a Marino - era un film abbastanza noioso, il che non è facile, perchè in genere non sono così noioso…".

Al pubblico irpino, tuttavia, nell’agosto del ’64, quel film piacque moltissimo: la presentazione, testimoniò un critico rigoroso come Armando Borrelli, “è avvenuta nella piazzetta di un paese di contadini, con pubblico di contadini. Monicelli ha spiegato cosa ha inteso dire col film I compagni e siamo sicuri che la gente ha capito. La proiezione è avvenuta in quella stessa piazza e il pubblico popolare ha apprezzato la fatica di Monicelli. (…) Anche il mondo della premiazione ci è sembrato assai simpatico, poichè è stata fatta nella grande e bellissima vallata del Laceno, con la sua corona di montagne e il suo suggestivo villaggio alpino, quasi in presenza di greggi di pecore che pascolavano lì intorno, al cospetto dello stesso pubblico che aveva assistito alla proiezione del film premiato la sera precedente".

 

IL TRIBUTO DELL'IRPINIA
Di quell’insolita serata di gala le immagini in bianco e nero di Domenico Paolercio ci restituiscono le suggestioni di una festa popolare d’altri tempi, con un Monicelli sorridente e sereno in prima fila, tra un’affascinante Lydia Alfonsi e la maestosa bellezza di Scilla Gabel. Quello spettacolo inconsueto lo lasciò commosso e stupito: "C'era questa folla che aveva occupato dappertutto, anche con i sedili, pure in piedi...però era una cosa, devo dire, primitiva. Le immagini all'aperto erano così così, il film si vedeva e non si vedeva…”, confida il Maestro a Vietri.

Non a caso ImmaginAzione, il circolo di cultura cinematografica di Avellino presieduto da Antonio Spagnuolo a cui si deve il nuovo "Laceno d'Oro", scelse proprio I compagni per ricordare Monicelli all'indomani della sua scomparsa, a conferma di un legame silenzioso ma sempre vivo tra il Festival irpino e il regista toscano, a cui già Marino e d'Onofrio, nell'edizione dell'82 del "Laceno d'oro", avevano assegnato la “Targa d’oro Pasolini” per l'opera omnia, e nel '75 il premio per il miglior giovane attore a Michele Placido, lanciato l'anno prima da Monicelli in uno dei film di maggiore successo (due Nastri d'Argento, un David di Donatello e un Globo d'oro, e il record di incassi nel '74) del cinema italiano: Romanzo popolare.

Trent'anni dopo, a celebrare l'omaggio di Avellino al Maestro, nell'ambito di "Aspettando Giffoni" (su iniziativa di Alfonso Scarinzi e con una mostra di Paolo Giolivo), fu l'altra straordinaria scoperta di quel film: Ornella Muti, indimenticabile nei panni di Vincenzina, la giovanissima operaia venuta a Milano dall'Irpinia.

 

IL ROMANZO DI VINCENZINA
"A mia moglie Vincenzina, al nostro piccolo Francesco detto Ciccio, alle autorità di polizia, a quelle giudiziarie e governative, all'istituto di previdenza sociale per i fini pensionistici agli eredi, a tutti gli amici e compagni di lavoro qui di Milano, a parenti e paesani del mio paese natale Montecagnano prov. di Avellino e a tutti coloro che fecero della mia vita un INFERNO, senza rancore!": si intitola "Testamento" la prima pagina della sceneggiatura originale (in parte modificata nella stesura definitiva) di Romanzo popolare, in cui subito risalta la centralità del "motivo irpino" nel plot all'origine del film, scritto dallo stesso Monicelli con Age e Scarpelli.

Irpino è l'autore del "Testamento", Pasquale Mastrocuoco, emigrato in Germania e marito della giovanissima Vincenzina. (Nel film, invece, il marito di Vincenzina sarà il milanesissimo metalmeccanico milanese Giulio Basletti - uno straordinario Ugo Tognazzi - e il suo compagno di fabbrica irpino, emigrato a Milano anzichè in Germania, è il padre della ragazza, che Giulio aveva tenuto a battesimo diciassette anni prima). E irpina è la protagonista femminile del film, Vincenzina Rotunno: "undicesima figlia di lontani parenti particolarmente senza una lira del mio stesso paese natale", la definisce Mastrocuoco; "una bella ragazza di diciassette anni", la descrive il rotocalco che, nella sceneggiatura, riporta in cronaca il dramma della gelosia che dà vita a Romanzo popolare: un triangolo amoroso che vede la giovane irpina contesa tra il maturo marito, l'operaio 51enne che era stato il suo padrino di battesimo, e il giovane e focoso carabiniere Giovanni Pizzullo, anch'egli di origine meridionale (Michele Placido in una delle sue migliori interpretazioni), che di Basletti era diventato amico dopo averlo "conosciuto" durante una carica di polizia durante una manifestazione dell'"autunno caldo".

Scrive nel "testamento" l'irpino Mastrocuoco: "Oltre che per amore l'ho sposata per strapparla alla sua miseria. Vincenzina ha nove fratelli tutti disoccupati". Nel film sarà lei ad assurgere, da remissiva casalinga semianalfabeta, a vera protagonista, conquistandosi attraverso il lavoro in fabbrica l'indipendenza economica e l'emancipazione culturale, e con esse l'autonomia da entrambi gli uomini della sua gioventù.

 

L'IRPINIA COME METAFORA
Povera, isolata, lontana dalla modernità: l’Irpinia di Monicelli e dei suoi sceneggiatori Age e Scarpelli ricalca quella svelata agli italiani nell’inchiesta Rai Viaggio nel Sud (1958). Non a caso, in Brancaleone alle crociate (1970), la bella e sventurata principessa Berta/Beba Loncar elencherà Avellino tra le tappe di un’odissea personale che lascia attonito Brancaleone/Gassman. Al tempo stesso, però, una terra ingenua, giovane, piena di risorse nascoste: come la splendida diciassettenne Vincenzina/Ornella Muti (doppiata da Valeria Ruocco) di Romanzo popolare, a cui la provenienza da Montecagnano (sic), in Irpinia, conferisce concretezza identitaria e quell’aria remissiva e intrisa di femminilità che farà perdere la testa sia al marito, il metalmeccanico milanese Giulio/Ugo Tognazzi, che al suo giovane amante, il poliziotto Giovanni/Michele Placido.

Nella filmografia di Monicelli la provincia di Avellino era comparsa, sia pure indirettamente, come metafora della povertà e dell'arretratezza culturale in cui si dibatteva ancora gran parte del Mezzogiorno, in una commedia di successo (anche all'estero) del 1957, oggi dimenticata: Il medico e lo stregone, che i severi recensori di "Cinema Nuovo" apprezzarono come "la miglior prova delle capacità narrative di Mario Monicelli", preferendola ai precedenti e più acclamati Donatella (Orso d'Oro a Berlino nel '56) e Padri e figli. Il principale merito del regista fu la capacità di tenere insieme il registro della commedia con una certa visione sociale del conflitto tra il vecchio e il nuovo nel Sud, rappresentato dal guaritore ciarlatano Vittorio De Sica (lo "stregone") e dal giovane medico condotto forestiero Marcello Mastroianni. Una coppia di fuoriclasse affiancato da validi caratteristi e da due tra le più promettenti attrici italiane, Gabriella Pallotta e Lorella De Luca. Scenario della storia è un paesino di montagna, dal nome immaginario di Pianetta, che Monicelli definisce "irpino" ma nella realtà è Albano di Lucania. Segno, tuttavia, di una certa attenzione (e, va detto, con qualche deformazione folkloristica) del regista verso una terra lontana, e quasi sconosciuta agli italiani di allora, come l'Irpinia.

Da Il medico e lo stregone a Romanzo popolare la rappresentazione dell'Irpinia (in parte reale, talvolta di maniera) da parte di Monicelli e dei suoi sceneggiatori subisce un evidente salto linguistico e antropologico: il tono comico del primo film diventa grottesco nelle scene iniziali del secondo, dove peraltro compaiono temi nuovi e più profondi come l'emigrazione nel "triangolo industriale" e la condizione femminile. Fra i due film ci sono di mezzo più di quindici anni, durante i quali si sono registrati un "boom" economico di dimensioni epocali e, per l'Irpinia, soprattutto un terremoto come quello del '62 ad Ariano Irpino e dintorni, fino al Sannio, che aveva fatto parlare a lungo della provincia di Avellino sui media e nell'opinione pubblica nazionale. E Monicelli (che ambienta le scene iniziali di Romanzo popolare proprio nell'Irpinia terremotata) su quell'evento aveva potuto attingere, oltre che dalle cronache giornalistiche, anche dalle impressioni di prima mano di uno dei più importanti inviati speciali dell'epoca: Mino Monicelli, uno dei suoi fratelli, che dalla provincia di Avellino firmò brillanti reportage per "L'Europeo" proprio nel '62, sul fronte del sisma, e nel '65.

Erano gli anni in cui il miglior cinema italiano - dalla commedia al realismo, dal filone "politico" alla satira di costume - si contaminava felicemente con l'attualità politica e sociale, in un gioco di reciproche e fertili influenze. Anche per questo, lo studio dei film di Monicelli e dei suoi più illustri colleghi è un affascinante e utile viaggio nella storia d'Italia e, come abbiamo visto, anche d'Irpinia.

 

Paolo Speranza