Castellammare di Stabia

di Sergio Califano

Federico Cafiero de Raho, capo della direzione nazionale antimafia, intervenendo sull'episodio dei manichini impiccati e bruciati a Castellammare durante i falò per la festa dell'Immacolata, dove sono comparse anche le scritte "Così devono morire i pentiti, abbruciati", ha ribadito il vecchio concetto che se tutti i componenti della società civile facessero bene il proprio lavoro "la mafia non sarebbe un male inestirpabile, sarebbe un

male che si può distruggere se solo lo si volesse realmente". E Cafiero di crimine organizzato affrontato sul campo ne sa parecchio, e sul fenomeno del pentitismo potrebbe scrivere un'enciclopedia. E se oggi a Napoli non si conta più un morrto ammazzato al giorno, e se ai Quartieri Spagnoli la buona borghesia napoletana oggi acquista e ristruttura vecchie case fatiscenti facendo tornare il sole tra i vicoli, una parte del merito di questo

rinascimento si deve al lavoro feroce che fece negli ormai lontani anni '90 il giovane pm Federico Cafiero de Raho, che i cronisti del tempo, conoscendo la sua passione per i cani, definivano "il mastino che amava i pastori tedeschi". In particolare l'attuale responsabile della Dna fu sotto i riflettori della stampa napoletana tra l'89 e il 92 quando riuscì nell'impresa, che sembrava utopistica, di cancellare il più potente cartello camorristico del ventre di Napoli, che si estendeva dalla Pignasecca al Pallonetto di Santa Lucia, da via Roma al corso Vittorio Emanuele, dai vicoli del Cavone alle Case Nuove di via Marina.

Anni di inchieste senza pause, coadiuvato da un team di eccezionali investigatori di polizia (il capo della Mobile, Giuseppe Palumbo e il responsabile della sezione Omicidi, Francesco Di Ruberto) e dei carabinieri (l'allora maggiore Vittorio Tomasone, oggi generale a Napoli). E nella sua guerra al clan dei picuozzi, un esercito di gregari, killer e fiancheggiatori capitanati dai fratelli Ciro, Marco e Salvatore Mariano, Cafiero de Raho si

trovò a gestire due autentiche bombe rappresentate dal pentimento di Pasquale Frajese, Pascalotto 'e Secondigliano, e Carmela Palazzo, per tutti Cerasella. Frajese era un travet della morte: ogni mattina dalle Vele della Napoli negata e dimenticata andava a Montecalvario, si riempiva di cocaina e faceva una "picchiata", come in gergo malavitoso vengono chiamati gli omicidi, su ordine dei boss. Al magistrato raccontò fatti, circostanze,

incarichi degli affiliati e si autoaccusò di oltre quaranta omicidi. Al processo nell'aula bunker arrivò scortato da Di Ruberto e decine di poliziotti, camuffato con uno scafandro che gli copriva la testa. Parlò, Pascalotto, parlò moltissimo. E moltissimo parlò Carmela Palazzo che un giorno del gennaio del 1992 si presento a piazza Salvo D'Acquisto al maggiore Vittorio Tomasone: le avevano appena ammazzato il fratello Francesco durante

lo scontro tra picuozzi e scissionisti e lei, fino ad allora trafficante di totanetti, micidiali mix di cocaina ed eroina, fece l'elenco dettagliato della malanapoli. E nel bunker di Poggioreale anche lei arrivò circondata da carabinieri e con una parrucca bionda. In cella, e poi in carcere a scontare lunghe detenzioni, finirono centinaia di personaggi della camorra, tra boss, luogotenenti, killer e specchiettisti (quelli che hanno il compito di seguire la vittima designatata e riportarne gli spostamenti). Lui, il mastino Cafiero, annodò i fili dei racconti e spense la luce sulla malanapoli.