Avellino

 

Il mondo ideale di Federico Biondi, che ci ha lasciato il 12 maggio dello scorso anno, è tutto nei ricordi che ha avuto la lucidità di consegnarci nel 2000 in Andata e ritorno, testamento laico di un politico e amministratore fra i più progressisti e onesti che abbia espresso Avellino e itinerario avvincente nell’Irpinia del ‘900, magistralmente inserita nello scenario italiano e internazionale, recuperando documenti, valori, figure che oggi possono apparire remoti.

Il libro si può leggere anche come un romanzo di formazione, il cui protagonista, poco più che adolescente, scopre tumultuosamente la politica e la vita, fino all’approdo nel Pci, in cui conosce la condizione operaia, la miseria e insieme la dignità delle classi contadine, l’abnegazione dei militanti e il valore degli intellettuali, primo fra tutti Ruggero Gallico, segretario dal ’48 al ’57. È il decennio che coincide con la stagione di grandi lotte sociali, la costruzione di un partito di massa all’insegna della “via italiana al socialismo”, l’esperienza del “Progresso Irpino”.

Andata e ritorno non è dunque soltanto il “viaggio nel Pci di un militante di provincia”, come recita il sottotitolo e come è stato finora accolto e interpretato.

Questo libro, di respiro e valore nazionale (si legga la commossa lettera all’autore scritta da Nilde Jotti poco prima della sua scomparsa), è molto di più, e tante cose insieme: il testamento politico di un dirigente di partito e amministratore locale fra i più progressisti, versatili, critici, onesti che abbia espresso nel Novecento la città di Avellino; la confessione lucida e sincera di un intellettuale, che ha ispirato tutta la sua vita a una rigorosa etica laica; un itinerario irripetibile e avvincente nel “secolo lungo” in Irpinia, che l’autore inserisce magistralmente nello scenario italiano e internazionale, dal fascismo alla “guerra fredda”, dal primo centrosinistra (sperimentato proprio ad Avellino, tra un pronunciamento di Sullo e un comizio in via Matteotti di Nenni) alla svolta di Occhetto, salutata da Biondi con entusiasmo: è qui il momento del “ritorno”, richiamato nel titolo, dalla parte migliore è più consistente della sinistra italiana sulle posizioni espresse mezzo secolo prima dal piccolo e sfortunato Partito d’Azione, dal quale il giovane Biondi era approdato nel ’46 (l’“andata”) al “partito nuovo” di Togliatti.

Le ragioni di questa “scelta di vita” e la lunga militanza nel Partito Comunista Italiano, vengono rivissute e spiegate sul filo della memoria, recuperando documenti, immagini, figure, immagini di un tempo che alle nuove generazioni appare incomprensibile e remoto. Oltre a chi, nel Pci ha speso una parte della sua vita, e a quanti lo hanno, in buona o mala fede, avversato, il libro è rivolto infatti soprattutto a chi non c’era: “È giusto che ai giovani d’oggi e alle generazioni che verranno – scrive l’autore nel capitolo introduttivo – sia offerta la possibilità di scrutare anche nella piccola storia di un mondo che non hanno conosciuto”. E per questi ultimi l’approccio ad Andata e ritorno risulterà tutt’altro che ostico.

Al giovane liceale Biondi, al tempo di Mussolini, capita di assistere alle riunioni del ristretto circolo di antifascisti avellinese, fra i quali si staglia la figura prestigiosa di Guido Dorso. Qualche anno dopo, insieme a pochi altri studenti (tra i quali il coetaneo Antonio Maccanico), finisce in carcere per aver distribuito volantini contro il regime, suscitando il malcelato orgoglio del padre, stimato professore di fede socialista, e la trepidazione della madre, di famiglia cattolica, che solo con l’andare del tempo finirà per accettare la scelta comunista del secondogenito. Poi, la breve ma intensa esperienza azionista e quindi, come tanti giovani intellettuali democratici, il passaggio nel Pci, in cui scopre la miseria e insieme la dignità delle classi contadine, le difficili condizioni di vita e di lavoro degli operai delle miniere, delle concerie e dei cantieri, il valore e l’abnegazione dei dirigenti sindacali, di militanti poveri e sconosciuti ma coraggiosi e idealisti, di intellettuali quali Italo Freda, Silvestro Amore, Pasquale Stiso, Camillo Marino, Eleazaro Vuotto, Salvatore Mariconda, il pastore evangelico Donato Castelluccio e tanti altri e, una spanna sopra tutti, Ruggero Gallico, coraggiosa e nobile figura di antifascista, dirigente politico e intellettuale di valore, comunista integerrimo e disinteressato quanto alieno all’autoritarismo burocratico, che, inviato in Irpinia dopo il voto del 18 aprile, guiderà fino al ’58 il Pci verso i suoi massimi risultati elettorali.

È il decennio che coincide con la stagione di grandi lotte operaie e contadine, con la costruzione di un partito di massa all’insegna della “via italiana al socialismo”, con la straordinaria avventura politico-editoriale del periodico “Il Progresso Irpino”.

Per Federico Biondi, giovane funzionario di partito e quindi, come si diceva fra “compagni” allora “rivoluzionario di professione”, il vero nodo esistenziale diventerà per anni (ma finalmente con esito positivo) quello di conciliare l’impegno politico a tempo pieno con gli studi universitari e poi con l’avvio della professione di docente nelle scuole superiori. I capitoli al riguardo sono tra i più belli e interessanti del libro, pieni, al tempo stesso, di una struggente nostalgia e irresistibile autoironia. Ma in tutta l’opera, soprattutto il primo volume (rivissuto dall’autore con maggiore distacco), è frequente imbattersi in pagine e momenti memorabili, di notevole spessore letterario, testimoniato dalla duttilità stilistica dell’autore, che spazia dall’efficacia argomentativi delle riflessioni di ordine economico-sociale, di politica internazionale, di urbanistica, di storia (e qui emerge il lettore assiduo di De Sanctis, Gramsci e soprattutto Croce) all’autentica poesia dai toni lirici ed elegiaci dei ricordi più privati, delle esperienze più coinvolgenti, dei profili di amici e compagni, dove si avverte la frequentazione dei testi di Manzoni, Verga Nievo. E benché l’autore si sforzi di ribadire che la sua sia opera di “ricordi, dunque, e non storia”, alcuni capitoli rappresentano autentici gioielli di narrazione storica: il funerale di Dorso, la battaglia elettorale del ’48 ad Avellino, il comizio di Togliatti, il ritratto umano e politico di Gallico, l’occupazione delle terre in Alta Irpinia, la terribile crisi del Pci nel ’56, il dualismo Sullo - De Mita (per i quali Biondi non nasconde sincero rispetto e stima), la fase propulsiva dei primi anni ’70 nel capoluogo (con l’amministrazione Aurigemma e le iniziative della sezione “Gramsci”), il dopo-terremoto. Per parlare dei capitoli in apparenza “minori”, come quello dedicato alle prime esperienze di insegnamento, assai più interessante e formativo degli indigesti manuali dei pedagogisti a la page.

Autentico gioiello storico-letterario, il primo volume avrebbe assicurato all’autore consensi pressoché unanimi. Ma Biondi è stato in primis politicus, e con Andata e ritorno si proponeva di concorrere, hic et nunc, al dibattito sull’attualità politica e sulle sorti della sinistra italiana, alla quale egli indicava con decisione la strada della socialdemocrazia. Da qui, anche, il tono più polemico di alcune pagine, con l’autentica requisitoria contro il gruppo dirigente irpino del Pci e poi dei Ds o il ritratto politico di Antonio Bassolino, tutt’altro che lusinghiero per l’ex presidente della Regione Campania, a cui pure riconosce l’indubbio merito di aver governato Napoli con “abilità ed efficacia”. Qui Biondi attinge alla prosa di Tacito e Machiavelli, consapevole di suscitare dissensi e impopolarità in alcuni settori della sinistra ma coerente con il patto di estrema lealtà contratto, dalla prima all’ultima pagina, con il lettore.

Lo stesso Biondi, in chiusura, ricorda che nessun giudizio è definitivo e che il dibattito è aperto. E per che di sinistra non è stato e mai sarà (come molti esponenti del Pd irpino), quel che conta è non indulgere in letture frettolose e categorie di parte, come quelle di un Biondi comunista “eretico” (non è stato forse dirigente del Pci per oltre un trentennio?) o “anomalo”, dal momento che in tanti ne hanno condiviso aspirazioni ed ideali indiscutibilmente democratici. Egli è stato, piuttosto, un dirigente “liberal” del comunismo italiano, aperto al dialogo e all’autocritica, cultore della “religione della libertà”, coerente nel sostenere posizioni coraggiose e anticipatrici. Al quale, proprio per questo, non si addice neppure la definizione di “perdente” (“… il comunismo italiano – scrive nel capitolo conclusivo – se non è uscito vittorioso dallo scontro, alla fine, a differenza di quello degli altri paesi, in cui è stato al potere, non può dirsi neppure veramente vinto”) o, peggio ancora, di “pentito”.

Gli unici politici capaci di entusiasmarlo, confessa, sono stati Togliatti e Terracini. E la militanza del Pci, nonostante i drammi e le sconfitte vissute, resta una straordinaria ed insostituibile palestra di vita: “Che cosa saremmo stati noi, giovanotti in erba – scrive a p. 315 – destinati alle professioni intellettuali, senza quel rapporto organico con i lavoratori, i contadini, i sottoproletari? Era come se si aprisse allora un dilemma tra l’essere semplicemente avvocati o medici, o notai, e l’essere semplicemente uomini. Capisco ora che, senza saperlo ancora compiutamente, avevamo scelto di essere semplicemente uomini, e così, avevamo deciso di tirare innanzi per questa strada, senza badare ai costi che avremmo dovuto sopportare”.

Davvero una testimonianza di “bella politica”, più che mai viva ed attuale, quella del compagno Biondi.

Paolo Speranza