di Luciano Trapanese
In attesa dei Mazzy Star e con addosso ancora le emozioni suscitate dai Dream Syndicate, le notti rock ad Avellino (sorpresa...), continuano. E nel segno della grande, grandissima musica. Questa volta con entrambi i piedi nella leggenda. Segnatevi questa data: sei ottobre 2018. Tre mesi appena. Il luogo, sempre lo stesso: auditorium del conservatorio Cimarosa (bel posto, buona acustica). Sul palco salirà una delle più importanti band inglesi. Un gruppo che ha influenzato per 40 anni la storia del rock. E che, come disse qualcuno, ha inventato il post punk prima del punk: i Wire.
Per chi li conosce, poco da aggiungere: magari ha già prenotato i biglietti. A chi ha prestato ascolto in questi decenni ad altri gruppi o altre sonorità, beh, consigliamo una veloce ripassata: fidatevi, resterete più che sorpresi.
I Wire appartengono a quella ricca schiera di band che partendo dal punk si sono avventurate molto oltre (come fecero i Clash ma seguendo traiettorie più tradizionali, per intenderci), diventando punto di riferimento per tutto il post punk, la new wave, fino a influenzare anche divinità assolute dell'olimpo rock, come i Rem. Nei loro esordi hanno incrociato un altro genio, Brian Eno, lo stesso che sull'altra sponda dell'Atlantico, nella vitale New York della no wave di fine anni '70, dove il punk si fondeva al funky o al free jazz, condivise i suoi neuroni con quelli di David Byrne, la mente e il cuore di un gruppo che grazie a quella congiunzione cerebrale ha dato il là alla magnifica avventura dei Talking Heads. Ma stiamo divagando. Torniamo ai Wire.
Il progetto nasce nel 1976, gli anni del primo fermento punk. Colin Newman, George Gill e Bruce Gilbert frequentano l'accademia d'arte di Watford. E questa origine comune ne influenzerà le successive e poliedriche scelte artistiche. La storia dei Wire si divide in tre fasi distinte. Come spesso accade, la prima è la più leggendaria. Tre album, tre capolavori. Punk nell'animo. Ma molto oltre il punk, così oltre che per chi era ragazzino e vibrava ascoltando White Riot, London Calling, Tommy Gun, Good Save The Queen, Anarchy in The Uk, Don't Cry Wolf, risultavano troppo avanti (li avremmo scoperti – con rimpianto - qualche anno dopo, quando certi suoni saturavano l'aria).
Nel 1977 esce Pink Flag. Ventuno canzoni condensate in 31 minuti. L'anno successivo è la volta di Chairs Missing, con echi evidenti ancora di Eno e del Bowie berlinese. Il capolavoro assoluto, quello acclamato incondizionatamente dalla critica, uno degli album più importanti di sempre, esce nel 1978: 154. E' l'addio definitivo al punk, siamo già in piena new wave, ma nessuno se ne accorge (anche perché la new wave non c'è ancora). Lì dentro ci sono echi di quel soft dark che sarà poi il marchio di fabbrica dei Cure, il noise pop dei Sonic Youth e Jesus and Mary Chain e vengono ripresi quei tappeti sonori che ricordano tanto Velvet Underground e Television. E a proposito di Television, sono proprio loro e Patti Smith i numi tutelari dei Wire.
Dopo una pausa di cinque anni il gruppo si riorganizza. A metà degli anni '80 la direzione è decisamente elettronica e dance, una svolta che riporta (ma non da vicino), all'esperienza degli ex Joy Division (dopo la morte di Ian Curtis), quando danno vita ai New Order.
La terza fase inizia poco prima del nuovo millennio e dura ancora. La band ha messo insieme le nuove tecnologie con un suono pieno e la riproposizione in chiave attuale di vecchi concetti e vecchi materiali. Risultato: gli ultimi album sono pura grande musica. Da Send (2003) a Silver Lead (2017), un filo ininterrotto di meraviglia rock. E più di una volta, la critica su queste opere ha ripetuto la stessa, identica, frase: «Se il disco fosse stato concepito e realizzato da una nuova band avremmo tutti gridato al miracolo». Ma erano i vecchi Wire, ed era solo un altro pezzo della loro grande storia.
Come per i Dream Syndicate a rendere possibile lo spettacolo l'impegno di due appassionati avellinesi: Lello Pulzone e Luca Caserta. Vi ringraziamo in anticipo. In attesa dei Mazzy Star (scusate, è un nostro debole).