Benevento

Settant’anni fa, con un moto più o meno uniforme, l’Italia decideva che era tempo di smetterla, era tempo di dare una svolta a quel ventennio finito nel peggiore dei modi. Furono momenti cruenti, fu sangue a fiumi per creare le condizioni di libertà di cui si era perduta traccia. Oggi è quasi tutto dimenticato, morti, sacrifici, olocausti, tutto si sta sciupando e della libertà si è fatta altra faccenda. Gli uomini e le donne di allora son quasi tutti passati a miglior vita, si sono smarrite anche le cartoline militari conservate per tanti anni in soffitta.

 

Il terremoto dell’80 demolì le vecchie case e tutti i tesori e i ricordi che custodivano. Oggi si festeggia con un po’ di retorica e un po’ di spensieratezza, si approfitta per una gita fuori porta ma di quei giorni terribili non c’è più traccia di memoria se non in qualche film storico ben fatto. In settant’anni abbiamo apprezzato la libertà, abbiamo goduto la pace e ricordato finchè c’era un genitore che raccontava, a volte fino alla nausea, la guerra. Per noi figli di militari reduci della seconda guerra mondiale, la guerra era un incubo ricorrente. Siamo stati cresciuti con i racconti delle azioni militari, delle bombe, dei feriti. Mio padre era nella Croce Rossa, era aiutante sanitario, ricuciva i feriti, sotterrava i morti quando era possibile, era sempre in prima linea per recuperare i feriti e poi negli ospedali da campo per medicare, accudire. Nell’album fotografico che ho ricostruito appare un uomo maturo che ha perduto buona parte dei capelli per via del casco sahariano, sempre in divisa, dieci anni tra militare, licenze, guerra di conquista in Africa e poi il difficile rientro dopo la liberazione. Disavventure nel deserto, fame, naufragio dopo l’affondamento della nave, piogge torrenziali che raggiungevano il livello della branda nella tenda, frutta esotica fino alla nausea per sfamarsi, malaria, dissenteria.

 

Tutta l’infanzia l’ho trascorsa ad ascoltare i suoi racconti col terrore che la guerra un giorno sarebbe potuta ritornare, tutt’ora, prima di addormentarmi, ogni sera esprimo sempre lo stesso desiderio: Signore fa che l’umanità trovi la pace. E poi c’erano le zie vestite di nero che aspettavano il ritorno dei fratelli, nella masseria, a compiere lavori maschili, insieme agli anziani genitori. Si sposarono tardi perché i giovani erano in guerra, poi, al ritorno c’erano tante cosa da riordinare prima di pensare ai matrimoni. Intanto, nella grande stanza al piano superiore del vecchio casolare, una grande foto, in una cornice nera con vetro, proteggeva il ricordo di zio Pasquale. Un uomo molto alto, bello nella sua divisa di granatiere, morì al fronte, in Albania, il suo corpo non è mai tornato in patria, non se ne sa nulla.

 

Qualche anno fa, da alcune ricerche fatte, abbiamo scoperto che prima di partire per l’Albania fu messo su un treno che passò per la stazione di Apice. Mancava a casa da mesi e doveva andare a combattere in terra straniera, passò a poca distanza dai suoi cari ma non potè fermarsi per salutarli. Dopo di questo una comunicazione dal fronte e il lutto scese sulle vesti delle donne di casa, sul povero vecchio padre che aspettava ben consapevole che anche all’altro figlio poteva capitare la stessa sorte. Ma la morte aveva scelto il più giovane finito con un colpo di baionetta, questo si seppe, morì nel peggiore dei modi. Mio padre, nonostante le disavventure rientrò a Firenze e vi restò per un bel po’ perché era complicato spostarsi, ci volle un po’ di tempo per rientrare in paese. Restò presso alcuni amici e imparò il mestiere di fioraio, Firenze non tardò a riprendersi ma la maggior parte dei fiori erano corone per funerali. La nonna e le zie continuarono a indossare gli abiti neri per lunghi anni.

 

Lui tornò con un baule di racconti, esperienze, foto con bellissime crocerossine e signorine fiorentine, ma la guerra lo aveva segnato profondamente, non si cancellano quelle esperienze, forse si imprimono nelle carni come le ferite e la malattia che lo invalidò. E così, dopo la liberazione della nazione, restava quella liberazione difficile da operare, il suo spirito, la sua anima, il suo io massacrato dalla violenza assorbita, patita. Il suo era un corpo speciale, la Croce Rossa non era attaccata direttamente ma erano bersagli indiretti quando dovevano recuperare i feriti, vedevano tutte le sofferenze che la guerra può imprimere. I nostri paesini poco seppero della guerra vera tranne qualche bombardamento, l’arrivo dell’esercito tedesco e il sequestro dei beni, non seppero della Resistenza dei fratelli Cervi, non videro le atrocità della Linea Gotica.

 

Le zie ricordavano con terrore i militari tedeschi; sotterrarono i corredi, nascosero i buoi e i maiali negli anfratti naturali lungo il ruscello perché l’esercito nazista requisiva tutto, erano loro i padroni. Degli Americani avevano un buon ricordo ma dicevano che i “Neri” erano pericolosi e si tenevano alla larga perché si raccontava di stupri. Un altro zio tornò dall’Inghilterra dove era stato prigioniero, non aveva sofferto con gli Inglesi. Peggiore fu la sorte di chi andò in Russia, tornò con i piedi congelati, lividi. Zio Vincenzo fu miracolato, silurarono la nave, lui era in Marina, un proiettile gli scoperchiò il cranio, ma guarì e della sua vita ne ebbe tante da raccontare. Quando la generazione che ha combattuto sarà definitivamente scomparsa allora si inneggerà di nuovo alla guerra perché l’uomo dimentica e non impara, non fa tesoro dell’esperienza e cade sempre negli stessi errori.

 

Franca Molinaro