di Luciano Trapanese

Si discute e si manifesta per l'articolo 18, per l'età pensionabile, per i diritti perduti dei lavoratori. Ma a un passo da noi, dietro l'angolo, c'è la quarta rivoluzione industriale. L'automazione. E rischia di produrre trasformazioni radicali. Oltre a mettere a rischio – solo nel nostro Paese – milioni di posti di lavoro. Non bisognerà aspettare molto. La rivoluzione è già iniziata. Si concretizzerà entro cinque, dieci anni.

«Vero, ma i due aspetti – automazione e articolo 18 – non sono necessariamente in relazione». Anselmo Botte, della Cgil, analizza gli effetti delle nuove tecnologie in Campania e in provincia di Salerno.

«Ci saranno e saranno notevoli, ciò non toglie che la tutela dei lavoratori può e deve essere assicurata anche di fronte a cambiamenti epocali. Il jobs act ha avuto un impatto fallimentare, ha distribuito incentivi alle aziende. A quelle decotte e a quelle che avrebbero potuto farne a meno. Ma tutto questo non si è poi tradotto in un reale beneficio per i lavoratori. Ha solo semplificato i licenziamenti».

La questione di quello che sarà resta aperta. E quello che sarà dipende non certo dall'articolo 18, ma dalle risposte che il Paese saprà dare all'innovazione che sta travolgendo il mondo del lavoro in ogni suo settore.

Non bisognerà aspettare molto prima di vedere auto e camion che si guidano da soli. Stanno già sparendo lavori poco qualificati. Le macchine utilizzeranno algoritmi in grado di insegnare compiti cognitivi che un tempo richiedevano l'esperienza umana, spazzando via anche molti ruoli manageriali. Uno tsumani. Atteso, previsto, incombente.

«Eppure – dichiara Botte – non mi sembra che si stia facendo qualcosa per affrontarlo. In Italia non esiste una politica industriale. I pochi fondi messi a disposizione per la cosiddetta industria quattro punto zero non seguono indirizzi precisi. Faccio un esempio: ormai tutti sappiamo che tra qualche anno il mercato sarà invaso da auto elettriche, ma non stiamo neppure pensando a come attrezzarci...».

Una mancanza di visione che si rischia di pagare a caro prezzo. La prima rivoluzione industriale ha causato gli stessi stravolgimenti, e sono stati necessari settanta anni prima di ritrovare un equilibrio. Ma non solo. Se prima le trasformazioni si verificavano in tempi più o meno lunghi, oggi le innovazioni tecnologiche corrono rapide. Annientano certezze radicate. Soprattutto in un Paese come il nostro, ancora novecentesco, analogico. Dove lo stesso jobs act (al netto della questione sui diritti), ha un impianto vecchio, non adeguato ai tempi. E ha ignorato del tutto una cosa fondamentale: la formazione.

«L'automazione – continua Botte -, avrà ripercussioni sul lavoro non qualificato, ma di contro potrebbe creare nuovi posti di lavoro e altri indotti. Però bisogna essere pronti ad affrontare questi cambiamenti. Per la Campania, ma per tutto il Sud, questa potrebbe essere una sfida importante. Penso alla nostra industria conserviera, in particolare quella del pomodoro. Siamo leader mondiali nel settore. Ma dobbiamo cercare di innovare le aziende, produrre qui anche i macchinari che invece andiamo a comprare altrove. Quello che si perde nell'automazione si può guadagnare con le aziende che producono macchine per l'automazione, qualificando meglio i lavoratori. Ma siamo sempre lì, serve la formazione e il pragmatismo e il coraggio delle imprese. Il tutto in un quadro che potrebbe essere strutturato solo dalla presenza di un piano industriale nazionale che non c'è».

E' nel comparto agricolo che le innovazioni tecnologiche si stanno affermando con maggiore velocità, almeno in provincia di Salerno. E soprattutto nella Piana del Sele, la California d'Europa.

«Sì, le innovazioni spingono soprattutto le colture protette, la produzione in serra. Penso al settore floro vivaistico. Ormai dalla Piana si esportano fiori ovunque, anche a Sanremo... Ma c'è anche chi va oltre. Chi ha avviato coltivazioni senza terra, facendo crescere le radici in una soluzione liquida che riproduce le stesse sostanze di cui una pianta ha bisogno. Coltivazioni su più piani, e che quindi implementano e di molto il raccolto. Nella Piana questo sistema sta nascendo, anche sulla scorta di una precedente esperienza olandese. Ma è un esempio che serve anche per affermare che in quel contesto non servono solo braccianti, ma anche e forse soprattutto biologi e chimici».

Semplificando, una agricoltura quattro punto zero. «Sì, molti giovani – aggiunge Botte - ci stanno provando, con piccole imprese agricole. Mentre la Piana si sta imponendo a livello nazionale come leader della quarta gamma, ovvero le insalate, lavate, tagliate e imbustate. Pronte per essere condite e mangiate. C'è un mondo imprenditoriale che si è lanciato sulla strada dell'innovazione, adeguandosi al mondo che cambia. Certo, restano nodi cruciali come il caporalato. Ma anche lì la situazione sta cambiando e certo non c'è lo stesso sfruttamento di qualche anno fa, quando chi parlava di schiavismo non sbagliava».

C'è quindi un doppio paradosso. L'agricoltura, per definizione il più tradizionale dei settori produttivi, è quello che in Campania, e in particolare nel Salernitano, meglio sta rispondendo alla domanda di innovazione e con l'innovazione sta lentamente creando un indotto diverso da quello consueto. Dall'altro lato resta comunque una piaga antica – anche se in forme meno estreme – come quella del caporalato.

Altri settori – come il manifatturiero – restano invece più fermi. Ancorati ad un passato che sta svanendo. E pagano alla crisi e alla mancata innovazione un prezzo altissimo. In assenza di un piano industriale nazionale, tutto viene lasciato alle iniziative individuali. Forse un ruolo potrebbe svolgerlo in questo contesto la Regione, in attesa che il potere centrale si svegli dal torpore e decida di affrontare una rivoluzione che può portare sviluppo o accentuare il declino e le già altissime percentuali della disoccupazione e del precariato.