Avellino

 

L’ultimo spettacolo della rassegna  “civile” al Teatro Carlo Gesualdo si è chiusa ieri sera con l’impegno, l’affabulazione e la bravura di un grande attore come Ascanio Celestini che ha portato in scena “Discorsi alla Nazione”. L'artista romano è uno dei precursori del filone “civile” nel panorama teatrale italiano. Dopo l’incontro allo zia Lidia Social Club dove ha incontrato il pubblico in seguito alla proiezione del suo documentario “Parole sante” , Celestini ha continuato a “conversare” con il pubblico del teatro comunale con una raffinata ironia nel brusio di frammenti di discorsi declamati da personalità politiche e non.   Poi, il monologo costruito per capitoli legati dal filo rosso della tirannia. Nel suo personalissimo “discorso” finale c’è una spinta a svegliare le nostre coscienze addormentate e cita Antonio Gramsci che: “avrebbe eletto un poeta a ministro della cultura, un contadino a ministro dell’agricoltura, un precario a ministro del lavoro, un pacifista a ministro della difesa, la mamma di Federico Aldrovandi a ministro della giustizia, un immigrato a ministro agli esteri”.  Qui, l’intervista che ha concesso a Ottopagine.

 

Qual è l'idea alla base dello spettacolo "Discorsi alla nazione"?

I cittadini di un paese nel quale da molto tempo si sta combattendo la guerra civile si sono abituati al conflitto come ad uno stato naturale delle cose. Molti aspettano l’arrivo di un tiranno che ponga fine agli scontri e ripristini la normalità attraverso la dittatura. In questo modo metaforico e surreale cerco di raccontare lo spaesamento che ci ha lasciato il ‘900. In questa vertigine tutti cercano di montare sulla giostra della società senza preoccuparsi dell’altro che viene individuato solo come ostacolo o pericolo.


Qual è la sua posizione nei confronti della politica italiana e dei suoi elettori?

 Fare politica non significa riduttivamente andare a votare o seguire un partito. Fare politica significa agire individualmente cerando di mettersi in relazione con gli altri. Da questo punto di vista la croce messa sul simbolo di un partito una volta ogni qualche anno è un gesto che può essere anche molto deresponsabilizzante.


Qual è la situazione del teatro italiano, oggi?

C’è troppa differenza tra chi ha accesso a spazi e finanziamenti e chi, invece, ne è tagliato fuori. E poi manca una cultura che consideri il teatro come un vero e proprio lavoro.


Conosceva già l'Irpinia?

 Da vent’anni mi allontano da Roma quasi soltanto per lavoro e purtroppo in Irpina sono stato chiamato non più di due o tre volte. È un peccato che ci siano pezzi del nostro paese che vengano tanto dimenticati dal teatro.


 Progetti futuri nel suo lavoro teatrale?

A novembre debutterò con un nuovo spettacolo. Sarò ospite del Festival Romaeuropa. Il titolo provvisorio è “Laika” e dovrebbe parlare di un Gesucristo di periferia che non ha più la forza di salvare il mondo. Che lo osserva cercando di comprenderne le contraddizioni e che alla fine comprende una cosa: il mondo non ha bisogno di giustizia, può salvarsi solo con la grazia

Marina Brancato