Avellino

 

“Fuori c’è il deserto dei Tartari, silente, minaccioso, dentro colleghi rassegnati e disadattati, forse più arresi alla vita dei reclusi stessi, disadattati per una loro follia diversa, scaltra, la follia della gente normale che non si fa rinchiudere ma rinchiude, che non si fa violentare ma violenta. Io sono un infiltrato”. 

Così l’incipit de  “Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante”, ultimo libro di Piero Cipriano, di recente pubblicato da Elèuthera. Irpino, di Guardia dei Lombardi, Cipriano vive a Roma dove lavora come psichiatra.  Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua ultima esperienza letteraria e il suo punto di vista.

 

Ci spiega il titolo del suo ultimo libro?

In sintesi ciò che si può dire di questo libro è tutto contenuto nel titolo e nel sottotitolo: sono le cronache di uno psichiatra che rilutta a lavorare nel manicomio. E questa è una dichiarazione affatto scontata, perché la psichiatria è nata col manicomio, e per due secoli si è sempre esercitata nel manicomio, sia quello visibile fatto di muri, fasce, sia quello invisibile fatto di diagnosi e farmaci, quello che definisco appunto “il manicomio chimico”.

 

Come lo definirebbe: un diario, un manuale, un saggio critico?

 

Non è un diario, come non lo era il libro precedente (La fabbrica della cura mentale), che con questo forma un dittico, ma non è nemmeno un saggio vero e proprio, e neppure un manuale. All’inizio avevo pensato che la definizione ideale potesse essere “reportage”, i miei editori invece hanno preferito “cronache”. Che in effetti è più puntuale, risponde meglio allo stile, che è prevalentemente narrativo, perfino romanzesco a tratti, anche nei capitoli in cui affronto argomenti più tecnici, gli psicofarmaci, per esempio, di cui faccio una sorta di storia romanzata in poco più di trenta pagine, o il tema della diagnosi. Insomma, come nell’altro libro, anche in questo adotto uno stile peculiare, che sfugge a una definizione stilistica (forse anche nella scrittura esprimo una certa idiosincrasia per l’incasellamento diagnostico), un po’ è saggio e un po’ è romanzo. Adatto, secondo me, a raccontare più facilmente un tema, apparentemente  ostico, come il discorso su cos’è la follia e cos’è la cura.

Nel suo precedente libro raccontava i "luoghi" della cura, mentre nell'ultimo si sofferma sull'abuso della farmacologia nella psichiatria italiana. I due libri sono complementari ?

Assolutamente sì. Nell’altro provavo a raccontare cosa sono i luoghi della psichiatria (SPDC, Case di cura, Comunità Terapeutiche, eccetera) e perché questi contenitori ripropongono, anche se per legge i manicomi, in Italia, sono stati aboliti nel 1978, delle logiche assolutamente manicomiali (oggettivazione diagnostica, farmaci quale unica terapia, ricovero reclusorio in luoghi chiusi, uso delle fasce per legare le persone più difficili). Insomma raccontavo quel manicomio fatto di luoghi fisici, ben visibili. Eludendo, tuttavia, la narrazione di questo moderno manicomio fatto di legacci invisibili, subdoli, sofisticati, apparentemente scientifici, quello che definisco appunto “il manicomio chimico”, costituito dalla coppia diagnosi e psicofarmaco. E questo moderno manicomio riguarda non solo l’Italia, ovviamente, ma l’intero mondo occidentale.

Che cosa significa per uno psichiatra "curare" ?

Bella domanda. Per rispondere la prendo un po’ lunga. La follia esiste. Questo è chiaro. Ed è uno dei modi più drammatici con cui un individuo può perdere la propria libertà. E chi lo nega (vedi posizioni antipsichiatriche) è un disonesto.  Dunque la psichiatria, e lo psichiatra, si può porre in due modi, rispetto a questa perdita di libertà della persona con un disturbo psichico. Si può porre in modo repressivo, quando obbliga, reclude, interna, custodisce, lega, seda. Determinando in questo modo una ulteriore restrizione della libertà. Oppure si può porre alleandosi con la persona, entrando in relazione con essa, empatizzando col suo vissuto, avendo in testa che “la libertà è terapeutica” e non lo è certo la reclusione, sia in manicomi visibili sia in manicomi invisibili. Dunque per molti psichiatri curare è inquadrare una persona scrivendo una diagnosi, prescrivere uno o più farmaci, e individuare, per questa persona, un luogo dove depositare la sua sofferenza, escludendola così dal resto del mondo. Per altri psichiatri, invece, curare è pensare a rispondere ai bisogni di quella persona, che non sono solo molecole, o ancor meno luoghi di cura appartati e staccati, ma sono i bisogni che a tutti, psichiatri compresi, sono necessari: affetti, lavoro, casa, danaro, svago, eccetera.

Qual è il valore che si dà oggi all'etnopsichiatria in Italia?

L’etnopsichiatria è una disciplina parassita molto interessante, una disciplina terza tra la psichiatria e l’etnologia. In Francia, per esempio, sono molto più avanti rispetto a questa pratica. C’è la scuola parigina del Centre George Devereux, fondata da Tobie Nathan, che è probabilmente il maggior etnopsicologo vivente (ho svolto un master  con questo gruppo, anni fa). Io ho sempre trovato molti punti di contatto tra questo tipo di etnopsichiatria e la psichiatria basagliana. Perché la trovo una disciplina molto democratica, rispettosa di culture diverse, di chi ha religioni, convinzioni, terapie diverse.  Negli ultimi anni è diventato ancora più necessario questo approccio, data l’imponenza dei fenomeni migratori. L’etnopsichiatria considera con uguale rispetto i terapeuti occidentali e i guaritori tradizionali. Faccio un esempio. Mi è capitato di conoscere una donna congolese, che apparentemente delirava. Sosteneva di essere oggetto di un cannibalismo notturno, mentre dormiva. I nostri sistemi diagnostici l’avrebbero confinata nell’ambito del disturbo delirante. Invece dal punto di vista della sua cultura lei era attaccata da un tipo di stregoneria che si chiama kindoki, rispetto alla quale lo psichiatra occidentale, coi suoi farmaci antipsicotici, è assolutamente inefficace.

Che cosa c'è e che cosa manca alla psichiatria italiana oggi?

Mi viene da rispondere: uno come Franco Basaglia. Ma lo so che è una risposta nostalgica e infantile. Non puoi stare a pensare che per risolvere i problemi  è necessario tuo padre, se tuo padre non c’è più. Devi rimboccarti le maniche. Direi invece che manca la capacità, la volontà di applicare e far funzionare la migliore legge al mondo in tema di salute mentale, che è la legge 180. E questa è una grave responsabilità della politica, della psichiatria, e della società.

Esistono ancora tracce dell'eredità di Basaglia?

Altroché. Ci sono luoghi, servizi, dove ancora è forte l’impostazione teorica e pratica basagliana, dove appunto la legge 180 è ben applicata e funziona, vedi il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, coi suoi quattro Centri di Salute Mentale aperti 24 ore su 24 e sette giorni su sette, con un SPDC ospedaliero provvisto di soli 6 posti, che di più evidentemente non sono necessari, senza porte chiuse e senza fasce. Da tutto il mondo (ma non dall’Italia ahimè) vanno a studiare i servizi di salute mentale triestini. Anche se esistono altre realtà, in Italia, di buon funzionamento dei servizi di salute mentale, però sono una minoranza. Queste sono tracce concrete dell’eredità di Basaglia. Inoltre sono ancora molto attivi alcuni di coloro che hanno lavorato con Basaglia, e ne hanno continuato il pensiero e le pratiche, e hanno vigilato sulla legge 180, in questi 37 anni, impedendone la riforma in peggio. Infine ci siamo noi, i basagliani che non hanno conosciuto Basaglia, ma hanno letto i suoi scritti e hanno deciso che questa era la migliore psichiatria possibile. La più etica. Ecco l’eredità di Basaglia in Italia.

Qual è la sua posizione rispetto alla recente chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari?

E’ necessario chiuderli. Non hanno nulla che rassomigli a luoghi di cura. Sono carceri travestiti da ospedali. Avrebbero dovuto essere chiusi nel 1978 dalla legge 180. Ora, 37 anni dopo, una legge, seppure imperfetta, la legge 81/2014, ne decreta la chiusura. Ma quali sono le imperfezioni di questa legge? Essenzialmente che il Codice Penale, e gli articoli 88 e 89, non vengono modificati. Non ritengo giusto che una persona che compie un reato, a cui viene diagnosticato un disturbo psichico, sia considerata incapace di intendere e di volere, e dunque non imputabile, non processabile, e per questo sconti, come spesso è accaduto, lunghissimi periodi di internamento, veri e propri ergastoli bianchi, per reati talvolta di poco conto, bagatellari, come si è soliti dire. Penso al contrario che si debba restituire a chi compie un reato la sua responsabilità, e i suoi diritti: il diritto di essere processato, di difendersi, e di essere assolto o di essere condannato.

Progetti per i prossimi mesi?

Molto probabilmente cambierò luogo di lavoro, andrò a lavorare in un altro Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Roma, che ha già le porte aperte, in cui mi piacerebbe contribuire a eliminare pure le fasce. E poi vorrei scrivere altre cose. Ho vari progetti. Cose già scritte e cose da scrivere. Mi piace questo doppio ruolo, di tecnico della salute mentale ma pure di narratore. Mi pare che ognuno dei due ruoli alimenti l’altro.

 

 Marina Brancato